“ I poveri li avrete sempre con voi” (Mt 26,11) Dopo aver preso in considerazione le parole molto severe di Gesù di Nazareth sui ricchi nella Palestina del suo tempo, nel Vangelo di Matteo troviamo questa affermazione che lui stesso definisce un “vangelo” di cui si dovrà sempre fare memoria. Perché questa memoria è un “vangelo”? In queste pagine cercheremo di chiarire questo interrogativo. Matteo c. 26
L'olio versato sul capo di Gesù diventa un'azione altamente profetica, una sfida all'oblio che prima o poi raggiunge ogni cosa e Matteo lo conferma citando un versetto antico, scritto cinque, sei secoli prima, quando il tema della povertà era all'ordine del giorno nel popolo d'Israele. A prima vista affermare categoricamente che i poveri li avremo sempre con noi non sembra esprimere alcunché di profetico. Bisogna quindi chiarire questa citazione che viene dall’AT, e cioè dal Deuteronomio. Inoltre, perché Matteo queste parole le colloca proprio alla fine di tutta la vicenda di Gesù di Nazareth? Andiamo quindi all'origine di questa citazione, che troviamo nel Deuteronomio al capitolo 15. Deuteronomio 15 : L'anno sabbatico1 Alla fine di ogni sette anni celebrerete l'anno di remissione. 2 Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il Signore. 3 Potrai esigerlo dallo straniero; ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lascerai cadere. 4 Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nel paese che il Signore tuo Dio ti da in possesso ereditario, 5 purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore tuo Dio, avendo cura di eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do. 6 Il Signore tuo Dio ti benedirà come ti ha promesso e tu farai prestiti a molte nazioni e non prenderai nulla in prestito; dominerai molte nazioni mentre esse non ti domineranno. 7 Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore tuo Dio ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso; 8 ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. 9 Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo: È vicino il settimo anno, l'anno della remissione; e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello bisognoso e tu non gli dia nulla; egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te. 10 Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi; perché proprio per questo il Signore Dio tuo ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano. 11 Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra. Teniamo conto che dal cap. 12 al 26 del Deuteronomio viene presentata una grande esortazione, una grande 'predica' di Mosè al suo popolo. E’ un'inedita 'mescolanza' di predica e di indicazioni legali che a noi può risultare strana. Questi capitoli potrebbero essere stati scritti intorno al 620 a.C. a Gerusalemme. A quel tempo il re Giosìa aveva iniziato una stagione di grandi riforme, con l'appoggio di Geremia. Accorgendosi infatti che finalmente esisteva un re di cui poter avere fiducia ( era per primo il re a salvaguardare la legge), Geremia decide di appoggiare convinto una riforma che rimettesse al centro il Dio unico (monoteismo) e il fatto che la loro comunità aveva le radici nell’Esodo. A partire da quelle radici, Geremia ricordava senza stancarsi che : “noi siamo il popolo liberato dalla schiavitù, Dio ci ha dato questa terra e noi non possiamo riprodurre la schiavitù qui, nella terra di Dio. Questa terra non è nostra, è di Dio, che ce l’ha data in concessione…” Con queste premesse, uno dei punti che riguardano la terra era: non ci possono essere situazioni di povertà 'cronica' e non può essere terra di briganti. Accanto a queste 'intuizioni', esisteva poi il culto al tempio con la classe sacerdotale che aveva il compito di tramandare nella memoria proprio quelle radici, quella 'vocazione'. (1) Al cuore della riforma annunciata (e lo stile letterario è proprio quello di Geremia), troviamo l’anno sabbatico. Una intuizione unica (a questo si lega anche il riposo del sabato: non si può vivere solo per lavorare). Ma torniamo ora ai versetti del nostro testo. Al v. 1 si parla di un settimo anno come di un anno di “remissione” e al v. 2 viene data una norma: la remissione del debito, condonare al proprio fratello il debito. La motivazione sulla quale il Deuteronomio insiste è teologica: la terra ci è stata data in dono, appartiene al Signore (Lev 25,3) e quindi non è possibile lasciare che la povertà si perpetui. Significherebbe 'tornare' in Egitto! Bisogna tener presente che la vita dei contadini, lungo i secoli, era divenuta progressivamente sempre più pesante; si era diffuso un certo latifondismo e le imposte statali erano gravose. Per questo la “remissione” era stata estesa anche ai debiti. (2) Il principio era quindi che se un Ebreo si indebitava, arrivava un momento in cui si facevano i conti e se i conti non tornavano, allora doveva esserci una remissione. Come vedete è un orientamento straordinario, ma... forse ancora molto vago. Infatti, dal versetto 3 al versetto11 abbiamo un testo splendido, una vera e propria 'esortazione', priva di termini legali. E' un appello ad andare verso i poveri con cuore aperto. Nella terra che ci è stata data , non è permesso che i poveri siano poveri per sempre; la cronicità della povertà rende disumana la convivenza. E quindi... chi aveva debiti, doveva avere la possibilità della remissione. Chi scrive vuole che la norma sia accolta interiormente, nella coscienza (il cuore). Visto che i poveri li avremo sempre con noi, almeno siano trattati con il cuore. Al versetto 9 si dice esplicitamente : “Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo: “E' vicino il settimo anno, l'anno della remissione; e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello bisognoso” (letteralmente è scritto: il tuo occhio sia “avaro”!). E il versetto continua con una maggiore carica: “egli griderebbe verso al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te”. Qui la parola “peccato” ha tutto il suo peso e la sua verità. Ma perché mai dovevano esserci debiti in una società fondamentalmente agricola e dove ognuno viveva di quello che produceva? Dobbiamo pensare a 'categorie' ben specifiche, in primo luogo le vedove, gli orfani e gli stranieri. Quando ad esempio moriva un padre di famiglia, di che cosa vivevano l’orfano e la vedova, cioè i sopravvissuti? Di debiti, nella grande maggioranza dei casi. Oppure, quando andava male il raccolto per la siccità o c’erano state le cavallette : con cattivi raccolti avanzava lo spettro della fame e della rovina. (3) L’intuizione è che la povertà vera (una persona che non mangia e muore di fame), non può essere una situazione permanente. “ Del resto, non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” versetto 4) : un'affermazione che non trovate in nessun' altra tradizione religiosa! La povertà deve essere sconfitta e prevenuta. Non si può salvare la fraternità se il cuore è indurito! Chi scrive fa appello al cuore, non al diritto. Infatti si parla di “peccato”, di “cuore generoso”, di “occhio avaro”. Come a dire: se il tuo fratello muore di fame, anche tu devi rimetterci qualche cosa. Per non lasciar dominare il peccato. Ecco allora la conclusione: “poiché i bisognosi non mancheranno mai sulla tua terra. (v.11) E' una conclusione che chi scrive ricava dall'esperienza. Ma, allora, come combinare il versetto 4 (“ non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi”) con il versetto 11 che afferma esattamente il contrario (“i bisognosi non mancheranno mai sulla tua terra”)? Qui siamo di fronte ad una originalità grande: siamo figli di una tradizione che è portatrice di un 'sogno', quello dei profeti. E l'esperienza dice che è un sogno che può realizzarsi, poiché la povertà non ha alcun valore sacrale; al contrario, è meglio prevenirla e vincerla! E così, tutta la nostra storia si è sempre dibattuta in questa grande tensione: un sogno da realizzare da un lato, e una realtà che a volte si impone implacabile, con tutto il suo peso, negando spazio al sogno. Come si vede, non siamo di fronte ad un sistema legale ma ad un sogno “profetico”. Ed ora una considerazione generale. Al tempo di Geremia, come nel nostro, bisogna trovare un 'sistema' che non si arrenda di fronte alla miseria e alla povertà degli affamati. E' quanto mai significativo che il Deuteronomio ci lasci intravvedere un 'sistema' fragilissimo: c' è il re, e se 'funziona', tutta la comunità è rassicurata; se non adempie al suo ruolo, è la classe sacerdotale che dovrebbe richiamarlo al suo compito; se i sacerdoti non vigilano o sono corrotti, allora emerge 'il profeta'. Qui si evidenzia una caratteristica tipica di Israele. Quando il sistema è inefficiente, e quando la mediazione istituzionale non produce i frutti che ci si aspetta, allora interviene la mediazione carismatica. Il profeta conosce il quotidiano della sua gente, fa parte di quella comunità, condivide i suoi momenti difficili, ed è dotato di una capacità di discernimento che a volte va oltre l'istituzione. Anzi la richiama alla sua vocazione. Se quindi il profeta interviene, significa che c'è bisogno di un ritorno alle radici e che è necessaria una qualche forma di creatività socio-economica, che ci vogliono delle proposte per superare l'ingiustizia produttrice di povertà. (4) La proposta dell'anno sabbatico da parte dei profeti, per quanto appaia ai nostri occhi troppo vaga e imprecisa, è però il segno di un orientamento propositivo, per vincere “il peccato” che è visibile nella povertà della vittima. Il 'precetto' è necessario ma non basterà mai. Nella chiesa dei primi tempi avevano percepito che Gesù di Nazareth si sentiva legato a questo sogno profetico di cui era figlio. Per questo egli metterà al centro non una nuova legge, un repertorio legale rinnovato, ma il Regno di Dio, che ora si confronta con la realtà del male, della povertà e con l'avidità dei poteri forti. Il sogno profetico, e l'invito a cercare prima di tutto il Regno, generano una cultura di perpetua e instancabile ricerca. Non perdiamo l'anima profetica e la passione per una ricerca continua. Proseguiamo ora con il brano di Matteo : l’Unzione di Betania. Sia Matteo che Marco parlano di questo episodio collocandolo all’inizio del racconto della passione, proprio quando le autorità del tempio decidono di prendere Gesù e condannarlo (v.4). Anche Giovanni ne fa menzione, ma l'episodio avverrebbe una settimana prima (Gv 12). Luca lo mette casualmente al cap 7. E' quindi difficile stabilire con esattezza quando questa “unzione” sarebbe di fatto avvenuta. E’ un brano molto 'costruito', nel quale è forte l'impronta 'redazionale'. Un testo che ha avuto una lenta e motivata elaborazione teologica. Perché le prime comunità hanno sentito il bisogno di insistere sulla sepoltura di Gesù? Nella tradizione era molto importante seppellire i morti con tutto il rispetto e il decoro possibile (vedi il Libro di Rut). La 'buona sepoltura' era una delle opere di misericordia, più importante della stessa elemosina. Dopo la distruzione del tempio e di Gerusalemme, nel 70 d.C., gli ebrei anti-cristiani, non vogliono più saperne di questo nuovo gruppo che ormai si presenta come 'altro' rispetto al Giudaismo. Non è più possibile riconoscersi membri della stessa fede. Sarebbe così sorta l'insinuazione se Gesù di Nazareth fosse stato veramente sepolto, trattandosi di un vero e proprio criminale. Già era sommamente umiliante la morte per crocifissione (pena capitale inflitta ai ribelli, agli omicidi, agli schiavi che, nudi, sulla croce venivano lasciati in pasto ai corvi), ma l'insinuazione che non avesse ricevuto neppure una sepoltura degna di un uomo, aggravava certamente il quadro. Oggi non riusciamo più a immaginare cosa potesse significare, a quel tempo, affermare la fede in un crocifisso! Dopo duemila anni, il carico umiliante di quell'infamia non lo avvertiamo più. I vangeli reagiscono a questa diceria? Si direbbe di sì. E Matteo lo precisa al versetto 12: “Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura”. Anzi, al versetto 7, si precisa che l'olio viene versato sul capo; Gesù viene cioè “unto”, come si faceva per il re e il sacerdote. E' quindi un condannato, un umiliato, ma con dignità regale e sacerdotale! Un fatto inedito. C'è poi la 'protesta' per lo spreco di un profumo di grande valore (circa 100 euro); anche qui forse Matteo lascia intendere, come vedremo, che su questo argomento c' è qualche problema nella comunità. Ma, proseguendo con un certo ordine, occorre sottolineare l' importanza dei primi cinque versetti. Qui abbiamo la traccia della più antica teologia delle comunità primitive. Avevano capito che era loro compito ineludibile tramandare la memoria di un “giusto” condannato ad una morte infamante. Di questa memoria scandalosa si ritenevano i custodi. Una custodia 'a caro prezzo', perché indicibile, inusitata, inspiegabile. La teologia della redenzione verrà annunciata solo qualche anno dopo. Ma il punto di partenza, che non possiamo dimenticare, è stato quello della 'passione del giusto'. Per questo, fatto inedito, in tutti e quattro i vangeli saranno scritti ben due lunghissimi capitoli per raccontare la passione di quel giusto innocente. Ora ne considereremo il perché 'profetico' ed emergerà il perché siamo di fronte ad un 'vangelo' di cui fare sempre memoria. Ad un certo punto entra in scena una donna che versa dell'olio profumato sul capo di Gesù. Quel gesto non era casuale. E' come se lo ungesse re e sacerdote. Ed è questo che il mondo intero dovrà ricordare. Proprio lui, che già intravvede la condanna, non sarà solo un condannato. Anzi, in quanto re e sacerdote, diventa per sempre il celebrante di una liturgia inaspettata : tutti i condannati, tutte le vittime e gli umiliati potranno riconoscersi in lui. Perché lui li rappresenta tutti. Questo è ciò di cui tener conto nelle dispute esistenti in comunità sulla centralità dei poveri. Certo, i poveri erano stati il vero punto su cui Gesù di Nazareth aveva insistito nell'annunciare il Regno già presente. Anzi, c'è di più. Pochi versetti prima di questa scena, cioè al cap. 25, c' è il grande quadro di un 'giudizio finale'. Tutti lo conosciamo. Il linguaggio che descrive quel 'giudizio' è il tipico linguaggio della mentalità apocalittica, e quindi da un lato ci sono i “benedetti” e dall'altro i “maledetti”. Ma andando oltre queste espressioni legate a quel tempo, il punto è chiaro a tutti : ci sarà chiesto, ci è già chiesto, che ne abbiamo fatto dei poveri. Di quanti hanno fame, sete, sono nudi, carcerati o stranieri. Si tratta di situazioni reali che interpellano non la nostra 'santità' (o l'etica), ma la nostra umanità. Nessuno può dire di aver amato Dio se non ha visto in faccia i poveri di cui si parla al cap. 25. Un grande annuncio, che supera qualsiasi barriera di provincialismo religioso. Il nostro brano sull'Unzione arriva allora al suo vero punto centrale. Colui che è stato 'unto' è anche lui un povero. E, di fronte a lui, non conta quanto vale quel profumo e con quanti soldi si sarebbero potuti beneficiare i poveri. Bisogna 'capire' questo, evitando contrapposizioni del tipo : viene prima il Cristo o i poveri? Lui è ' il povero', condannato ad una morte infamante; e tutti i poveri che sono umiliati, disonorati e senza più nome, hanno a che vedere con lui. Ecco il vangelo profetico che non può restare nascosto. In lui, sulla sua croce, tutti i miseri, gli umiliati e tutte le vittime hanno ricevuto l'olio del Padre che li riconosce e li accoglie. Gesù di Nazareth è il povero 'decisivo' al quale riferire tutti i poveri disumanizzati. Perché proprio quel povero è stato glorificato da Dio. A nessuno sfugge che qui non si tratta più di elemosina, di meriti, di armonia, di fare la carità, di essere virtuosi, di osservare dei precetti! Le primissime comunità, a Gerusalemme, Antiochia, Damasco, Efeso, si sono rese conto che la povertà aveva acquisito una dimensione inattesa, e anche oscura : chi tocca il povero, tocca il mistero del Cristo stesso! Una scoperta unica. Nel Cristianesimo, il povero non è mai unicamente un problema sociologico o di assistenza. Viene sempre considerato in una prospettiva 'cristologica'. Conseguentemente, la 'caritas' ha sempre una dimensione 'cristologica'. Quando la viviamo, stiamo cioè facendo non solo ciò che lo stesso Gesù di Nazareth avrebbe fatto, ma andiamo più in profondità, entriamo nel suo mistero, in cui la povertà, tutta la povertà umana, viene assunta davanti al Padre. Ecco il “Vangelo” che supera il sogno dei profeti. Il mondo della povertà non ha confini, oggi come allora. Per Gesù i poveri erano gli ammalati (si pensava che fossero castigati da Dio), gli affamati ( si pensava che i ricchi erano stati benedetti da Dio), gli umiliati, le vittime di ogni sorta di soprusi, quanti morivano nell'ingiustizia più plateale e nella solitudine più amara, le prostitute, e anche i bambini. Ecco perché le prime comunità non si sono presentate nell'impero romano come una nuova religione etica, dotata di precetti sublimi. No. Dal Cristo avevano colto il nodo di ogni vita umana: cosa fare della 'propria' povertà... e dei poveri. E quindi si rivolgevano a quanti erano in 'situazione di povertà'. E lentamente, in comunità, aiutavano le persone a connettersi con un 'segreto', cioè a mettere insieme la propria povertà con quella di Gesù di Nazareth, con la sua croce e la sua umiliazione. Per questo aggregavano i miseri e i senza nome. Erano fortemente contagiosi, perché toccavano con il povero e nel povero il 'mistero' di colui che era stato il povero 'decisivo'. Se la Chiesa smarrisce tutto questo, diventa un' associazione assistenziale tra le tante, o predica l'elemosina, o canonizza la povertà. Per concludere, una considerazione di grande importanza. Teniamo conto che questa citazione del Deuteronomio, “i poveri li avrete sempre con voi”, viene pronunciata al termine della vicenda storica di Gesù, alla fine della sua vita e non all’inizio. Queste parole non sono state quindi la premessa dalla quale è partito. Quando, nel 28 d.C., Gesù inizia la sua vita itinerante, dopo la breve esperienza con il Battista, non ha iniziato affermando che 'i poveri li avremo sempre con noi'. A differenza del Battista e di altri, invece di parlare di giudizio imminente o portare tutti a studiare la Legge, ha annunciato il Regno di Dio . E' il Regno che vince il male con il bene, che si confronta con situazioni in cui regnano l’ingiustizia, la miseria e l’umiliazione. Infatti, nel Vangelo di Luca (cap. 4), Gesù va nella Sinagoga di Nazareth e legge i versetti di Isaia (cap. 61) nei quali si parla dell'anno di grazia, del Giubileo, dell'anno sabbatico, e cioè di una grande riforma a beneficio di tutti gli affamati e gli emarginati. Non ha Gesù, come il Battista, annunciato un giudizio di Dio terrifico e imminente. L'appello di Gesù è stato volto in primo luogo alla necessità di metter mano all'ingiustizia con tutta l' umanità possibile. Non possiamo permetterci di pronunciare l'affermazione del Dt. come premessa, la possiamo dire alla fine, dopo che è stato fatto tutto il possibile contro l’ingiustizia e la povertà. Se i cristiani diventano sempre più una minoranza, non per questo saremo legittimati ad arrenderci. Si tratterà piuttosto di un vero kairos, 'momento favorevole' per affermare concretamente il primato del Regno di Dio. E per farlo con tutta la creatività possibile, perché si affermi un'economia diversa in un contesto sociale che consenta a tutti di vivere. (6) Giuseppe Florio (presidente@progettocontinenti.org
Testo della conferenza tenuta da GIUSEPPE FLORIO, presidente di progetto continenti, il giorno 27 settembre in San Pietro Patierno (Na). Si ringrazia Federico Cisone per aver raccolto il testo in forma integrale, compreso le note a piedi. Si possono seguire le iniziative di progetto continenti sul sito www.progettocontinenti.org
NOTE
* * * Mi sembra doveroso e utile, dopo quanto abbiamo considerato, riprendere quel volto di chiesa che il Concilio aveva tratteggiato: “E come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo “sussistendo nella natura di Dio... spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo” (Fil. 2, 6-7) e per noi “da ricco che era si fece povero” (2Cor. 8,9): così anche la chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per far conoscere, anche col suo esempio, l'umiltà e l' abnegazione. Cristo è stato inviato dal Padre “ a dare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore contrito” (Lc. 4, 18), “ a cercare e salvare ciò che era perduto” (L. 10,10): così pure la chiesa circonda di affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne l'indigenza, e in loro intende di servire a Cristo”. (Lumen Gentium, n. 8, par.306) |