unione degli atei e degli agnostici razionalisti

IL DIO CHE NON C’È

ancona, 12 maggio 2009,

ore 17

sala conferenze palazzo bottoni

Da quando il dott. Svarca mi ha gentilmente invitato a tenere questo incontro con voi, conferenza che a quanto pare ha suscitato apprensione in certi ambienti e preoccupazione in altri, ho cominciato a pensare alla tematica da trattare, “il dio che non c’è”, e la mia attenzione è stata attratta da tre affermazioni che di seguito elenco:

Il 22 aprile Rita Levi Montalcini, grande donna e grande scienziato, ha compiuto ben 100 anni, cento anni in splendida forma intellettuale e morale. Alla richiesta se credesse o no in un dio, la Montalcini ha risposto: “Invidio chi ha la fede. Io non credo in dio. Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce”.

Le faceva quasi eco, una settimana dopo su Repubblica, nella sua tanto breve quanto interessante Amaca, Michele Serra, il quale prendendo spunto da quei fondamentalisti religiosi, sia cristiani che islamici, per i quali l’influenza suina era un castigo di Dio, scriveva che:

Una delle prove dell’inesistenza di Dio, perlomeno del Dio pedante e cattivo invocato in questi casi, sta nel fatto che alcuni dei suoi seguaci in terra non vengano folgorati all’istante ogni volta che dicono una cazzata” (Michele Serra, La Repubblica, L’amaca, 29 aprile 2009).

Immediatamente ho pensato a Padre Livio, il famigerato conduttore di Radio Maria il quale nel suo farneticante commento quotidiano ha affermato che, con il terremoto in Abruzzo, il Signore ha voluto associare gli uomini alle sue sofferenze (si era durante la settimana santa). Affermazione di fronte alla quale viene spontaneo chiedere al Signore che, già che c’è, associ alle sue sofferenze anche Padre Livio e tutta Radio Maria…

Uno scienziato, un intellettuale e un prete, tre atei, che in maniera diversa hanno parlato di dio, ma quale dio? Quale è il dio che rifiutano, il dio verso il quale sono indifferenti, che non conoscono, o che manipolano?


Quale Dio?

Con il Concilio Vaticano II, nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes, trattando dell’ateismo, si legge che

tuttavia in questo caso anche i credenti spesso hanno una certa responsabilità. Infatti, l’ateismo considerato nella sua interezza non è qualcosa di originario, bensì deriva da cause diverse, e tra queste va annoverata anche una reazione critica contro le religioni e, in alcune regioni, proprio anzitutto contro la religione cristiana. Per questo nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e che non manifestano il genuino volto di dio e della religione” (GS 19).

Pertanto, secondo il Concilio, è grande la responsabilità dei credenti: se molti non credono, in gran parte ciò è dovuto dal Dio impossibile da credere che proprio i cristiani hanno presentato, oltre che dal loro comportamento incoerente che non manifesta ma nasconde la verità della fede. È ovvio che quando l’uomo si scopre migliore del dio al quale viene invitato a credere ecco che nasce il rifiuto di un Dio che può darsi esista pure, ma che non incide per nulla nell’esistenza degli uomini.

In questo incontro pertanto cerchiamo di comprendere che cosa diciamo quando parliamo di Dio, chi è? che fa? come è? e chi è “il dio che non c’è”.


Onnipotente?

Una delle immagini di Dio maggiormente responsabili dell’ateismo o dell’indifferenza è indubbiamente quella dell’Onnipotente, comunemente intesa che Dio può fare tutto quel che vuole… altrimenti che Dio è? (è sintomatica l’espressione “Se fossi il Padreterno!…”, dove il riferimento è a una potenza senza limiti.

Gli uomini si chiedono come sia possibile conciliare l’idea di un Dio onnipotente con i mali che colpiscono l’umanità e affiora evidente la contraddizione:

- se Dio è onnipotente, non è buono, perché pur potendo sopprimerlo, rimane indifferente all’immenso dolore dei suoi figli.

- se è buono, allora non è onnipotente, perché questa sua bontà non sembra emergere nelle vicende della vita quotidiana.

Se Dio è onnipotente, cioè può far tutto, perché non agisce?

Non dice il proverbio popolare che “Non cade foglia che Dio non voglia”?

Non dipende tutto da lui?

Se non cade foglia senza il volere di Dio, all’uomo non resta che accettare i mali, le malattie, le sofferenze e la morte, come inappellabile decisione della volontà divina (sperando che non calchi troppo la mano) e affermare la sua fede in un Dio più temuto che amato, esclamando: “Sia fatta la tua volontà!” o, come il rassegnato Giobbe: “Il Signore ha dato, i Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore” (Gb 1,21).

Per cercare di capire o giustificare la volontà di questo Dio si adopera la formula “Dio non vuole il male ma lo permette”, ma nessuno che ne abbia la capacità, e il potere, permetterebbe mai il male che non vuole!


Dagli dèi pagani al Dio degli ebrei

Ancora oggi, tra i credenti e non, l’immagine che essi hanno di Dio si rifà più alle divinità del mondo pagano che a colui che Gesù di Nazaret chiamava il Padre.

Dio è il nome comune delle divinità di tutte le religioni, comprese quelle del mondo pagano, divinità che molto hanno influito e purtroppo ancora influiscono sull’immagine del Dio dei cristiani.

Nel mondo pagano la relazione con la divinità non era concepita come amore. Mai un pagano pensò di poter esser oggetto d’amore da parte del suo dio.

L’attributo essenziale degli dèi era il loro potere, e dei loro privilegi nei confronti degli uomini (immortalità, felicità) erano estremamente gelosi. Immortale era sinonimo di dio, e per quel che riguarda la felicità gli dèi sono i beati, che vivono “tutti i giorni nella gioia” (Hom. Od. 6,42).

Ogni felicità umana che sorpassasse certi limiti la ritenevano un’arroganza che doveva essere irrimediabilmente castigata. Per questo l’atteggiamento del pagano di fronte agli dèi era di grande timore, e ogni sua azione era finalizzata ad evitare il castigo del dio.

La preghiera pagana era più una formula scaramantica che espressione della fede (un poco come l’Ave Maria recitata prima di addormentarsi… non si sa mai!), e il sistema religioso consisteva in un insieme di riti destinati a placare l’ira gli dèi e ad allontanare i loro castighi.

Non è questo il sentimento che molti cristiani hanno verso il loro Dio? La prova è la frase che spesso si sente dire dai credenti: “Andava tutto troppo bene. Sentivo che doveva accadere qualcosa”, una qualche disgrazia mandata da Dio che si è accorto della felicità della persona, sfuggita alla legge della sofferenza, la “valle di lacrime” nella quale ha racchiuso tutta l’umanità.

Per molti credenti, e non solo, è più facile associare Dio al dolore che alla felicità, alla sofferenza che alla gioia (e per molti teologi se gli togliete il dolore e la sofferenza non sanno più dire di Dio). Per molti Dio è come geloso della felicità degli umani, e per questo ha in serbo una croce per ogni persona (Ognuno ha la sua croce!) alla quale nessuno si può sottrarre, perché poi gli capita una croce ancora più pesante. E che nessuno osi lamentarsi perché ognuno ha la croce secondo le sue spalle!.

Anche oggi, tra credenti, si sente parlare di persone che con la loro santità sono i parafulmini della Chiesa: Dio viene scambiato per il temibile Giove.

Il cammino della Bibbia

Esaminiamo pertanto quale è il volto di Dio che emerge dalla Bibbia.

Il processo che ha portato il popolo d’Israele al monoteismo, alla fede in un unico Signore, Yahvé, è stato lungo, difficoltoso e contrastato. Quel che viene descritto nel Libro dell’Esodo, con la rivelazione a Mosè di un’unica divinità sul monte Sinai, è in realtà il punto di arrivo di una tradizione spirituale che poco a poco si è fatta strada nel cuore degli israeliti non senza tentennamenti, ripensamenti e tradimenti. Nei profeti si denuncia con frequenza la venerazione a divinità straniere (Ger 44), spesso proprio all’interno del Santuario di Dio (Ger 7).

In questo processo verso la fede in un unico Dio, sono stati fatti confluire nell’unico Signore, funzioni e nomi di divinità minori. Da queste fusioni nasce il termine, sconosciuto nella Bibbia ebraica, di Onnipotente. Infatti nella figura di JHWH vengono fuse due divinità chiamate Zebaoth cioè le schiere celesti, considerate animate, e Shaddaj, il dio delle montagne. Questi due nomi vengono assorbiti e fatti proprio da Dio, che viene presentato come JHWH Zebaoth (Signore degli eserciti) (279 volte) e come Shaddaj (47 volte), nome di divinità dei monti il significato è incerto (forse montanaro dall’accadico shadda’u, oppure campestre, dall’ebr. Shadeh) ed è adoperato per lo più nel Libro di Giobbe.

Girolamo, incaricato da Papa Damaso, nel 380, di tradurre la Bibbia dall’ebraico nella lingua latina, trovandosi di fronte a questi due nomi difficili da interpretare, tradusse entrambi con “Deus Omnipotens” (Gen 17,1; 1 Sam 4,4), interpretando così la traduzione greca dei LXX che aveva reso entrambi i termini con pantokrator, “Signore di tutto/Sovrano universale. Pantokrator si trova 10 volte nel NT per lo più come citazioni dell’AT (in 2 Cor 6,18 come citazione di 2 Sam 7,14) e in diversi passaggi dell’Apocalisse (nove volte).


Non cade foglia…

Dall’immagine di un Dio onnipotente nasce il detto che non cade foglia senza che Dio lo voglia. Questo insano proverbio, che tanto influenzò una spiritualità deviata e deviante ed è la causa dell’abbandono della fede da parte di tante persone provate dalla vita, ha le sue radici in un’errata traduzione di un brano de vangelo secondo Matteo:

Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia” (Mt 10,29).

Ma questo modo di tradurre non rende l’idea del testo greco, dove si legge che “nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il Padre vostro” e che la traduzione latina (Vulgata) ha reso con “sine Patre vestro” e la Bible de Jérusalem giustamente traduce: “all’insaputa (à l’insu). Interpretazione confermata dal passaggio parallelo nel vangelo di Luca dove si legge che “nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio” (Lc 12,6).

È pertanto significativa la differente traduzione e interpretazione: non la volontà del Padre, ma all’insaputa del Padre. L’evangelista, infatti, vuole invitare alla piena fiducia in un Padre che conosce gli uomini molto più di quanto essi possano conoscersi (sa persino quanti capelli hanno in testa, Mt 10,30), e al quale nulla di ciò che avviene sfugge, neanche quanto accade alle più insignificanti creature, come appunto erano considerati gli uccelli nella cultura dell’epoca.

È proprio da questa immagine, di un Padre che non è indifferente a quel che accade agli uomini, ma attento ai bisogni dei suoi figli, un Padre che non interviene nelle necessità, ma le precede, che nacque graficamente la figura del triangolo, simbolo trinitario, con l’occhio al suo interno. Questa rappresentazione doveva infondere piena fiducia sapendo che qualsiasi cosa accada siamo sotto lo sguardo di Dio. Purtroppo si trasformò invece in un’immagine che incuteva timore e paura: lo sguardo severo di un dio poliziotto che tutto controllava e tutto vedeva al quale nulla sfuggiva… un occhio spietato e inflessibile pronto al rimprovero e al castigo, immagine di un Dio guardone il cui sguardo scrutava anche tra le lenzuola.


E la croce?

Strettamente legato alla volontà di Dio, c’è l’invito all’accettazione della sofferenza vista come croce mandata dal Signore.

L’invito a caricarsi del patibolo si trova cinque volte nei vangeli ed è sempre strettamente legato alla sequela di Gesù, sempre proposto e mai imposto.

L’appello di Gesù è rivolto alla volontà libera dell’uomo: “Se uno vuole” è la formula del suo appello (Mt 16,24).

Il Signore non vuole al suo seguito dei costretti, dei rassegnati, ma delle persone libere, entusiaste, che volontariamente lo seguono.

È un invito, chiarissimo nelle sue conseguenze, quello che Gesù rivolge. Non un’imposizione che grava su tutti, ma una proposta per alcuni: “Se uno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).

È possibile comprendere meglio quale sia il senso dell’invito di Gesù e si può tentare di ritradurre oggi l’espressione con “Chi non accetta di perdere la propria reputazione…”. Perché di questo si tratta. La croce era il supplizio per i disprezzati, per i rifiuti della società.

Gesù che non offre titoli, privilegi, posti onorifici, avverte coloro che intendono seguirlo: se non arrivano ad accettare che la società, civile e religiosa li consideri come delinquenti, che il sistema su cui si regge il mondo, li dichiari gente indesiderabile, non gli vadano dietro. È inutile, perché poi “quando giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, inciampano” (Mc 4,17).

Pertanto si devono chiamare con il loro nome le sofferenze, i lutti, le malattie, le difficoltà che la vita presenta, non equivocarle con la croce e tantomeno attribuirne la resposabilità a Dio.

La croce non viene data, ma è la conseguenza di una libera scelta fatta dall’individuo che, accolto Gesù e il suo messaggio, ne accetta anche le estreme conseguenze di un marchio infamante: “Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25).


Purificazione del volto di Dio

Pertanto è necessaria eliminare dal concetto di Dio tutte quelle scorie che tradizioni, superstizioni, devozioni hanno accumulato sul suo volto rendendolo irriconoscibile.

Nelle religioni antiche, il dio adorato è, il più delle volte, una rappresentazione delle paure e delle speranze dell’uomo, dei suoi desideri di potenza e delle sue frustrazioni, e nella divinità vengono proiettate nella massima misura le virtù e i difetti umani. L’uomo proietta il suo senso di giustizia, che riconosce limitato, nella divinità, costruendo un dio che punisce infallibilmente e severamente le colpe degli uomini. Alla giustizia umana si contrappone la giustizia divina. Se alla prima si può sfuggire alla seconda no. “Ma non sfuggirà alla giustizia divina” affermano soddisfatti quanti non possono accettare un Dio capace di amare anche i malvagi.

Per assicurarsi il favore e la benevolenza di questo dio, l’uomo si priva di ciò che gli è più necessario e importante per offrirlo alla divinità, sicché al dio che punisce viene affiancato quello che accetta i sacrifici degli uomini. È un rapporto con la divinità che rispecchia quello del servo col suo signore: come il servo, il credente cerca di ottenerne la benevolenza del suo Signore offrendogli le sue cose migliori.

Nel mondo ebraico, dove sono presenti questi molteplici aspetti della divinità, inizia una lenta ma costante opera di purificazione del volto dell’unico Signore, confluita in quella raccolta di scritti chiamati Bibbia. In particolare gli autori dei testi sacri tenteranno di correggere due immagini della divinità che sono molto radicate nel popolo: il dio che castiga e che pretende sacrifici.


Il Signore non castiga

Quando si legge la Bibbia occorre conoscere il suo genere letterario. Noi pur usando la lingua italiana la adoperiamo in maniera differente per redigere un verbale o per scrivere una poesia. Chi legge un giornale sportivo non si aspetta di trovare lo stile di un giornale finanziario. Un tramonto può essere descritto sia dal meteorologo che dal poeta.

Questo dato di fatto deve essere sempre tenuto presente quando ci si accinge a leggere la Bibbia per poter sempre saper distinguere quello che l’autore vuol dire da come lo dice. Quel che l’autore vuol dire è sempre valido, il come appartiene alla sua cultura, allo stile letterario del tempo, ecc. Quando non si tengono distinti i due piani il messaggio viene frainteso e spesso mistificato.

Un chiaro esempio è il famoso episodio del diluvio universale.

Per l’uomo della Bibbia ogni fenomeno atmosferico, in quanto proveniente dal cielo, sede divina, era in relazione con Dio. Sole e pioggia, nuvole e vento, lampi e fulmini (Sal 144,6) erano tutti strumenti con i quali Dio premiava o puniva gli uomini (Am 4,7).

Con la narrazione del diluvio (Gen 6-9) l’autore vuole correggere la credenza che mette in relazione fenomeni atmosferici con l’ira divina, per cui il Signore assicura che

Non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra” (Gen 9,12).

A riprova della verità della sua dichiarazione, il Signore depone le armi. Lo strumento che serviva per lanciare le saette e punire gli uomini (Ab 3,9-10) viene definitivamente deposto. L’arco del Signore non solo non servirà più per punire le persone, ma diventerà il segno dell’alleanza tra Dio e l’umanità:

Pongo il mio arco sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra” (Gen 9,13).


Non vuole sacrifici umani

A Gerusalemme, a sud del Tempio, c’è ancora oggi la Valle della Geenna. Questo luogo era adibito nell’antichità al sacrificio dei bambini a Molok, divinità fenicia (Ger 7,31). Sacrificare figli alla divinità era considerato normale (Gdc 11,34-39). I bambini non godevano di alcuna considerazione e non avevano alcun valore. Come recita il Talmud “l’unghia dei padri è più importante dello stomaco dei figli” (Ber r. 45,8).

L’episodio biblico conosciuto come il sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19) vuole modificare l’immagine di Dio, far comprendere che se altre divinità esigevano il sacrificio dei figli, il Dio d’Israele, Yahvé, lo rifiuta. Colui che chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio è Elohîm, nome comune della divinità: “Elohîm mise alla prova Abramo” (Gen 22,1) chiedendogli di offrirgli in olocausto il suo unico figlio.

Colui che impedisce il sacrificio non è Elohîm, bensì Yahvé, il Dio d’Israele:

L’Angelo di Yahvé disse: non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male!” (Gen 22,12).

Il significato della narrazione è chiaro: mentre le altre divinità (Elohîm) chiedono sacrifici umani, Yahvé, il Dio d’Israele, non li accetta.


Non vuole sacrifici

Nel proseguimento della conoscenza di Dio si arriverà ad affermare che non solo Dio non accetta sacrifici umani, ma neppure chiede alcun tipo di sacrificio:

Poiché voglio l’amore non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6; Mt 9,13; 12,7).

Nel Libro del profeta Isaia si legge una delle pagine più violente contro i sacrifici e lo stesso culto:

Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero? Dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto” (Is 1,11-15).

PERICOLO GESÙ

Il tempo è ormai maturo per la rivelazione, piena e definitiva del volto di Dio ad opera del Figlio Gesù. Ma chi è Gesù?

Senza dubbio un individuo estremamente pericoloso. Per catturare Gesù si scatena infatti un'operazione di polizia senza pari. Vengono impiegati “la coorte con il comandante e le guardie dei Giudei” (Gv 18,12). Il termine coorte indica un distaccamento tra 600 e 1000 soldati a servizio del procuratore romano. Le guardie, in servizio al tempio di Gerusalemme erano circa duecento alle dipendenze del sommo sacerdote. Mentre la coorte era incaricata del mantenimento dell’ordine nella città di Gerusalemme, le guardie lo erano per il servizio interno al Tempio. Tra i due corpi c’era profonda rivalità e inimicizia, e, tra l’altro, ai componenti della coorte era proibito l’accesso al Tempio. Ora questi due corpi di polizia sono uniti di fronte a un unico pericolo. Impiegare più di mille uomini armati per catturare un solo individuo - che tra l'altro non solo non oppone resistenza, ma si consegna da solo - vuol significare che questa persona è estremamente pericolosa.

Chi era e che cosa aveva fatto e chi era questo galileo tanto pericoloso?

Le sue credenziali sono pietose. Nel mondo giudaico il documento più antico che parla di Gesù lo definisce “un bastardo di un’adultera” (Yeb. M. 4,13), giustiziato “perché aveva praticato la stregoneria, sedotto e sviato Israele” (Sanh. B. 43 4a).

La situazione non migliora nei vangeli, dai quali risulta che gli stessi familiari di Gesù non hanno nessuna considerazione di questo loro strano e ingombrante parente (“neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui” Gv 7,5). Per essi è solo un matto da togliere dalla circolazione in quanto è il disonore della famiglia:

I suoi, uscirono per andare a catturarlo poiché dicevano è fuori di testa” (Mc 3,21).

Il giudizio negativo del suo clan familiare è abbondantemente confermato

- dalle autorità religiose che alla pazzia aggiungono una connotazione religiosa, l'indemoniamento: “Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare?” (Gv 10,20; cf 8,52; Mc 9,30);

Gesù è riuscito a deludere persino Giovanni Battista, che pur lo aveva riconosciuto come il Messia atteso. Constatato che Gesù si comporta diversamente dal Messia giustiziere che egli aveva annunciato alle folle, gli invia un ultimatum che suona come una sconfessione: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?” (Mt 11,3).

Persino gran parte dei suoi stessi discepoli, una volta conosciuto il programma di questo strano Messia, l’hanno abbandonato: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6,66). Il quadro è desolante: gli rimangono i Dodici, ma uno “è un diavolo!” (Gv 6,70), e tra i restanti “vi sono alcuni che non credono” (Gv 6,64).

Quando finalmente le autorità riusciranno a catturarlo, Gesù verrà consegnato a Pilato e accusato non solo dai capi religiosi, ma pure dalla sua stessa gente di essere un malfattore: “Se non fosse un malfattore non te lo avremmo consegnato” (Gv 18,30).

È il fallimento totale per questo profeta conosciuto dalla gente come “un ghiottone e un gran bevitore”, uno che non ha frequentato le persone che si addicevano al preteso ruolo di Figlio di Dio, ma che è conosciuto per essere amico della feccia della società: pubblicani e peccatori (Mt 11,19), “gente maledetta che non conosce la Legge” (Gv 7,49) e per colpa dei quali è ritardata la venuta del Regno di Dio.

Perché tanto astio attorno la figura di Gesù? Cosa ha detto e fatto di tanto grave da attirarsi contemporaneamente addosso diffidenza, ostilità, rabbia omicida che lo condurranno a finire, nella più completa solitudine:

- abbandonato dalla famiglia,

- tradito dai suoi discepoli,

- ridicolizzato dai romani,

- deriso dalle autorità religiose,

- inchiodato al patibolo riservato ai maledetti da Dio (Dt 21,23)?

Per comprendere quel che ha fatto Gesù e perché lo ha fatto occorre capire chi era, o meglio chi non era, questo carpentiere di Nazaret di Galilea.

Gesù non è stato né un pio Giudeo né un riformatore venuto a purificare la religione o il Tempio, come ci si attendeva dal Messia.

Gesù è venuto a eliminare Tempio e religione.

Gesù non è neanche un profeta inviato da Dio.

Gesù ha tentato ed è riuscito a fare quel che a nessun profeta o riformatore religioso era stato possibile.

Profeti e riformatori sono individui carismatici capaci di dilatare al massimo grado la loro esperienza del sacro e di formularla con modalità nuove. Le loro espressioni inizialmente verranno non comprese, osteggiate e perseguitate, ma poi, col tempo, accettate e assimilate o addirittura imposte.

Gesù è andato al di là. Gesù non si è mosso nell’ambito del sacro. Ne è uscito.

Il Cristo non solo ha ignorato nella sua vita e nel suo insegnamento tutto quel che era considerato sacro, ma lo ha sradicato, e per questo ha potuto mostrare il marcio delle sue radici.

Per Gesù la religione non solo non permetteva la comunione con Dio, ma era ciò che l’impediva. L’istituzione religiosa, anziché favorirla, era ciò che ostacolava la relazione con Dio.

Questo è stato il delitto di Gesù. Il suo crimine è stato quello di avere aperto gli occhi alla gente, aver mostrato loro il “re nudo” di quell’impostura chiamata religione.

Per questo è stato assassinato.

Gesù è stato ucciso dall’istituzione religiosa giudaica col pieno assenso dei Romani, perché il Sommo sacerdote e il Procuratore hanno visto in Gesù colui che, distruggendo le sacre basi sulle quali si reggeva la società, avrebbe portato alla rovina il loro mondo.

Gesù ha potuto fare tutto questo perché lui è l’Uomo-Dio, manifestazione visibile del Dio invisibile, l’unico che poteva cambiare la relazione tra gli uomini e il Padre. Nei vangeli Gesù viene definito sia Figlio di Dio, che figlio dell’uomo. Le due definizioni si completano: Gesù è il figlio di Dio in quanto in lui si manifesta Dio nella condizione umana. È figlio dell’uomo, in quanto Gesù è l’uomo con la condizione divina.

Al termine del Prologo al suo vangelo, Giovanni scrive infatti che

Dio nessuno lo ha mai visto: l'unico figlio, che è Dio ed è in seno al Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).

Affermando che Gesù è colui che ha rivelato agli uomini il volto del Padre (Gv 1,18), Giovanni invita il lettore a prestare attenzione alla persona di Gesù, poiché solo in lui si può conoscere il vero volto di Dio.

Per Giovanni non si deve partire da un’idea preconcetta di Dio per poi concludere che Gesù è e­sattamente uguale a lui. Il punto di partenza non è Dio ma Gesù.

Non è Gesù uguale a Dio, ma Dio uguale a Gesù.

Ogni immagine di Dio che non corrisponde e non coincide con quel che Gesù ha detto e fatto è un’immagine inesatta, errata e va cancellata.

Gesù condiziona la conoscenza del Padre a quella a se stesso:

Se voi mi conosceste conoscereste anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto” (Gv 14,7).

Condizionando la conoscenza del Padre alla sua, Gesù fa comprendere che questa conoscenza, dinamica e continua, porta a un processo di pienezza vitale. Più è vera e autentica l'adesione a Gesù e più grande è la possibilità di conoscenza del Padre.

Ma uno dei discepoli, Filippo, non comprende le parole del suo maestro e continua a distinguere Gesù dal Padre:

Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta”. “Gli rispose Gesù: Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai [ancora] conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?” (Gv 14,8-9).

La tradizione religiosa su Dio può condizionare talmente un individuo da impedirgli l'esperienza del Padre. Filippo da tanto tempo con Gesù non ha ancora compreso la sua identità. Non comprende che in Gesù si manifesta il Padre.

Gesù è l'unica fonte per conoscere Dio (Gv 1,18): il Padre è esattamente come Gesù.

Con Gesù Dio non è più da cercare.

Chi cerca Dio si pone alla ricerca di una divinità più immaginaria che reale e non giunge mai alla conclusione del suo cammino.

Con Gesù Dio non è da cercare ma da accogliere.

Mentre la ricerca è tanto astratta e lontana quanto è astratta e confusa l’ immagine che si ha di Dio, l’accoglienza è concreta e immediata.

Non si tratta di cercare Dio, ma di accoglierlo e con lui e come lui dirigere la propria esistenza verso gli altri.

Dichiarando che Dio nessuno l’ha mai visto, l'evangelista contraddice quanto la stessa Scrittura affermava. Nella Bibbia si trova chiaramente asserito che molti personaggi hanno visto Dio: Mosè con Aronne, Nabad, Abiu e settan­ta anziani al momento della conclusione dell'alleanza al Sinai “videro il Dio d'Israele... e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,10 11; 33,11; Nm 12,6 8; Dt 34,10).

Con la sua affermazione, l'evangelista relativizza l'impor­tanza di queste affermazioni: nessuno ha mai visto Dio. Per cui tutte le descrizioni che ne sono state fatte sono tutte parziali, limitate e a volte false.

Escludendo qualunque persona, di fatto l'evangelista esclude pure Mosè. No, Mosè non ha visto Dio di conseguenza la Legge che ha trasmesso non può riflettere la pienezza della volontà divina. Pertanto la Legge non solo non favorisce la conoscenza di Dio, ma è l’ostacolo che l’impedisce.

Sempre nel Prologo l’evangelista scrive che

la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17).

La Legge, diventata insufficiente per esprimere il rapporto dell’uomo con Dio, viene sostituita da una comunicazione incessante di grazia e verità, l’amore fedele con il quale il Padre desidera entrare in relazione con gli uomini.

Per esprimere questo profondo mutamento nel rapporto con Dio c'era bisogno di una nuova relazione (Alleanza) che sostituisse l'antica.

Mentre Mosè, “servo di Dio” (Ap 15,3), ha proposto al popolo d'Israele un rapporto con Yahvé come quella tra dei servi e il loro Signore (“Voi servirete Yahvé”, Es 23,25), Gesù, “figlio di Dio” (Mc 1,1), inaugura la nuova relazione tra dei figli e il loro Padre basata su un'incessante comunicazione d'amore: “Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi” (Gv 15,9; 14,21.23).

La condizione dell'uomo nei riguardi di Dio non è più quella del servo verso il suo Signore, ma quella del figlio nei confronti di un Padre che lo invita a raggiungere la condi­zione divina. E come Gesù non è servo di Dio, ma “figlio del Padre” (2 Gv 1,3), ugualmente coloro che gli danno adesione non saranno suoi servi (Gv 15,15), ma in quanto figli dello stesso Padre, fratelli, che con lui e come lui sono chiamati a collaborare al progetto di Dio sull'umanità (Mt 28,10).

Se nella prima Alleanza il rapporto con Dio era basato sull’obbedienza alla sua Legge, nella nuova Alleanza la relazione del figlio col Padre si basa sull’assomiglianza al suo amore (Mt 5,48; Lc 6,35). È sintomatico che l’ubbidienza, strumento in mano a ogni religione per sottomettere i fedeli alla dottrina imposta non compaia nel messaggio di Gesù. Mai Gesù chiede di ubbidire a Dio, e neanche a se stesso, e tantomeno a una creatura.

Il Dio che Gesù ha rivelato viene espresso con la definizione contenuta nel Nuovo Testamento: “Dio è Amore” (1 Gv 4,8.16).

Dio è Amore e l’amore può essere solo offerto altrimenti non è più tale ma diventa violenza.

Dio è Amore e non l’amore non si può manifestare attraverso delle leggi o delle dottrine, ma solo in opere che comunichino questo amore.

Ecco perché Gesù nel suo agire si è sempre mosso spinto dall’amore del Padre e non dal rispetto delle leggi.

Ogni volta che si è trovato in conflitto tra l’obbedienza alla Legge di Dio e il bene dell’uomo, Gesù non ha avuto alcuna esitazione e ha scelto sempre quest’ultimo: amando l’uomo si è certi di amare Dio (1 Gv 4,7-16), onorando l’uomo si onora anche Dio. Spesso invece per onorare Dio e la sua legge si disonora o si fa soffrire l’uomo.

La Legge nei vangeli è sempre uno strumento in mano alle autorità religiose per dominare e sottomettere il popolo. Son esse che invocano la Legge Dio, Legge che è sempre a loro vantaggio e mai a favore del popolo.

Il volto di questo Dio-Amore verrà fatto conoscere da Gesù con il nome Padre (Mt 6,9). Mentre dio è il nome comune di ogni religione, Padre è lo specifico della fede cristiana.

 

Il Dio che non c’è più

Se si può conoscere il Padre solo fissando lo sguardo sull’azione e sull’insegnamento di Gesù, l’immagine di Dio che emerge è profondamente diversa da quella conosciuta delle divinità delle religioni.

 

Il Dio che in Gesù si manifesta non premia i buoni e castiga i malvagi, ma a tutti, indistintamente, trasmette il suo amore, “perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35).

Dio non ama gli uomini perché sono buoni, ma perché lui è amore.

L’essere amati da Dio non dipende dal comportamento o dalle risposte dell’uomo, ma dalla benevolenza del Signore, amorevolezza che si rivolge ad ogni uomo, nessuno escluso. Pietro dichiarerà che “Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo” (At 10,28).

La “Gloria Dio nel più alto dei cieli” si realizza sulla terra nella “pace tra gli uomini, che egli ama” (Lc 2,14). Occorre notare come in passato una visione religiosa del rapporto tra Dio e gli uomini, basata sul merito, era riuscita a travisare questo versetto di Luca che veniva tradotto “pace in terra agli uomini di buona volontà”. La pace era solo per coloro che se la meritavano. No, la pace, vocabolo che racchiude in sé tutto quel che concorre alla felicità dell’uomo, non è riservata da Dio agli uomini di buona volontà, ma tutti gli uomini oggetto del loro amore.

Con Gesù l’amore di Dio non va più meritato ma accolto. Il Padre non ama l’uomo secondo i suoi meriti, ma secondo i suoi bisogni. Più l’uomo è bisognoso, più il Padre si sente irresistibilmente attratto nel manifestargli il suo amore (Lc 18,9-14).

L’accoglienza di questa immagine del Padre determina il passaggio dalla religione alla fede, dall’obbedienza alla somiglianza, dal merito al dono, dal premio al regalo.

Quello che Gesù ha proclamato lo ha anche praticato, creando con il suo atteggiamento verso i peccatori grande malumore tra le persone pie e i guardiani della tradizione.

I benpensanti protestano, perché credono che se non viene più presentato un Dio che rimprovera e castiga i malvagi “dove andremo a finire?”.

Se ai peccatori non si mette paura con le pene di un castigo, se non li si intimorisce con una minaccia da parte di Dio… non c’è più religione!

Grazie a Gesù è finita la religione e inizia la fede: non più quel che l’uomo è tenuto a fare per ottenere l’amore di Dio, ma la risposta dell’uomo all’amore che il Padre comunica a ogni uomo.


Il culto a Dio

La novità su Dio portata da Gesù è stata anche la causa della sua morte: Gesù, il “Dio con noi” (Mt 1,23), ha dimostrato, nell'insegnamento e nella pratica, che il Padre manifesta il suo amore mettendosi a servizio degli uomini.

L’immagine di un Dio a servizio degli uomini ha avuto l'effetto dirompente di scardinare alle radici il concetto stesso di religione, basato sul servizio dovuto dagli uomini a Dio, ed ha attirato contro Gesù l'odio mortale di tutte le componenti della società, dalle autorità, che sulla religione basavano il loro potere e il proprio prestigio, al popolo, che dalla pratica della religione si sentiva protetto.

Il volto di Dio che Gesù ha proposto era completamente sconosciuto nel panorama religioso contemporaneo e segna il definitivo passaggio dalla religione alla fede: non più l'uomo al servizio di Dio, ma Dio al servizio degli uomini, un Dio che “non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mc 10,45; Mt 20,28) .

In ogni religione veniva e viene insegnato che l'uomo ha come compito principale quello di servire il suo Dio (Dt 13,5): un Dio presentato sempre come sovrano esigentissimo, che continuamente chiede agli uomini, sottraendo loro cose (“il meglio delle primizie del suolo lo porterai alla casa di Yahvé, tuo Dio”, Es 23,19), tempo (Es 20,8-11) ed energie (Dt 6,5), in un servizio che veniva reso principalmente attraverso il culto.

Il Padre fatto conoscere da Gesù è un Dio che, anziché togliere, dona, che non diminuisce l'uomo ma lo potenzia.

L'immagine di un Dio a servizio degli uomini è per Gesù talmente importante che nell'ultima cena, dopo aver fatto dono di sé come alimento vitale per i suoi (pane e vino), dichiara: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Il servizio è l'attività che svela l'identità di Gesù e lo rende presente e riconoscibile una volta risuscitato: “riferirono di come l'avessero riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24,35; Gv 21,9-14).

Il Dio che Gesù ha fatto conoscere ai suoi discepoli non si comporta come un sovrano, ma come servo degli uomini. Ribaltando logica e consuetudine, Gesù paragonerà Dio a un padrone che, rientrato a notte fonda da un viaggio e, trovati i servi ancora svegli, anziché farsi servire “li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37). Dio non vuole gli uomini a suo servizio, ma con lui e come lui a servizio degli altri.

Il Padre di Gesù è un Dio che mette tutta la sua forza d'amore a disposizione degli uomini per innalzarli al suo stesso livello. Per questo nell'ultima cena Gesù, “il Signore”, compie un lavoro da servo affinché i servi si sentano signori (Gv 13,1-17). Segno di accoglienza, il lavare i piedi all'ospite era compito degli inferiori verso i superiori: lo schiavo non ebreo verso il proprio padrone, la donna verso il marito, i figli verso il padre (1 Sam 25,41) e i discepoli verso il maestro.

Lavando i piedi ai discepoli, Gesù, l'Uomo-Dio, dimostra che la vera grandezza non consiste nel dominare ma nel servire gli altri. Gesù, ponendosi all'ultimo posto, non solo non perde la dignità, ma manifesta quella vera, quella divina: “Io Yahvé, sono il primo e io stesso sono con gli ultimi” (Is 41,4). Gesù non si abbassa, ma innalza gli altri.

L’uomo dimostra la sua dignità non quando viene servito, ma quando si pone volontariamente a servizio degli altri.

Il Dio di Gesù non assorbe le energie degli uomini ma gli comunica le sue. Un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con l’uomo e dilatarne l’esistenza in una dimensione che non sarà interrotta neanche dalla morte.

Quando l’uomo accoglie senza riserve la continua azione creatrice del Padre, sente nascere in sé capacità sconosciute di doni vitali, che, accolti e trasformati in azioni concrete a favore degli altri, lo pongono in perfetta sintonia col suo Signore, diventando una sola cosa con lui (“Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’Uno”, Gv 17,22).

È terminata l'epoca dei templi, è finito il tempo dei santuari. L’unico santuario nel quale si manifesta l’amore di Dio è l’uomo. Mentre nell’antico santuario gli uomini potevano entrare solo a determinate condizioni e di fatto molti ne erano esclusi perché considerati impuri o indegni, il nuovo santuario, la comunità di Gesù, non attende che gli uomini si avvicinino, ma sarà essa ad andare incontro agli uomini specialmente a quanti si considerano esclusi o rifiutati da Dio per mostrare a loro l’amore di un Dio che a tutti offre amore incondizionato.

Questo è il Dio di Gesù, ogni altra immagine appartiene al “dio che non c’è”.