CATECHESI DI JUAN MATEOS

SU MARCO 15, 34



kaˆ tÍ ™n£tV érv ™bÒhsen Ð 'Ihsoàj fwnÍ meg£lV: elwi elwi lema sabacqani; Ó ™stin meqermhneuÒmenon: Ð qeÒj mou Ð qeÒj mou, e„j t… ™gkatšlipšj me;

A metà pomeriggio chiamò Gesù a gran voce: "Eloi, Eloi, lama sabaktani" (che tradotto significa) "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".


Metà pomeriggio, letteralmente "l’ora nona" (tÍ ™n£tV érv). Sono passate le Tenebre, che annunciavano il fallimento dei piani dei nemici dell’uomo su Gesù. In quel momento si alza il grido di Gesù. Per interpretarne il senso, bisogna tener conto dei numerosi riferimenti ad altri testi del vangelo e ai contrasti che presenta con altri passi. Ecco in primo luogo i riferimenti:

Il primo è in 1,3. E l'unico passo precedente in cui appare il solenne verbo "invocare" (greco: bo£w). In questo passo, la voce profetica esortava a "preparare il cammino del Signore (il Messia, Gesù), a indirizzare sulla sua strada"; la protesta indicava l'importanza e l’urgenza di questo lavoro. Nel passo della croce, alla fine del cammino, si constata che questo non è stato preparato né è stata indirizzata la strada; Gesù muore cacciato dalla sua società, che lo rifiuta e che non fa ammenda della propria prassi ingiusta. Gravissima è l'accusa di Marco alla società ebrea del tempo, riassunto di tutto ciò che è esposto nella narrazione evangelica; in particolare, del tradimento dei dirigenti.

Come in altre occasioni (Mc 5,41; 7,34; 10,46b; 14,36; 15,22), la citazione di termini aramaici indica che questa protesta si riferisce in qualche modo a Israele.

Solamente in tre passi del vangelo si esplicita che l’equivalenza del testo aramaico in greco è una traduzione (Mc 5,41; 15,22.34). Il fatto che la prima volta che questa annotazione si trova nell’episodio della figlia di Jairo, dove, per azione di Gesù, la morte si rivelava vita (5,39: "La bimba non è morta, sta dormendo"), trasferisce questo senso agli altri due passi, in particolare a quello che stavamo commentando; cioè, dopo la protesta straziante di Gesù, si nasconde una realtà di vita.

I contrasti che bisogna tenere presenti, si riferiscono alla scena del Getsemani (Mc 14,36).

Lì Gesù si rivolgeva a Dio come Padre (Abba, "Padre"), facendo appello al loro intimo rapporto, ponendosi nelle vesti di Figlio. Sulla croce, invece, lo invoca con la formula: Dio mio, Dio mio, cioè non in qualità di figlio, ma come un israelita fedele. Gesù sì mette nella condizione di tutti quelli che hanno sofferto ingiustamente. La ripetizione dell'appellativo sottolinea la fedeltà: colui che invoca è un uomo che non ha avuto altro Dio che questo e che non si è mai allontanato dalla sua strada.

Al Getsemani, Gesù chiedeva al padre che allontanasse quel calice, cioè che gli evitasse la prova dolorosa che doveva passare. Sulla croce Gesù non chiede nulla, formula unicamente una domanda che rivela stupore: c'è qualcosa che non capisce.

La traduzione greca fatta da Marco della particella aramaica lema (greco: e„j t…) dà a questa in primo luogo un senso finale: "Perché? Per quale motivo?" Dio lo ha

abbandonato in mano ai suoi nemici, principalmente ai dirigenti di Israele. Non ha impedito il disprezzo ed il supplizio di suo figlio; evidentemente, Israele continua a rifiutarlo e si burla persino della sua umiliazione e della sua sofferenza (Mc 15,29-32). Quel popolo che rifiuta Gesù, e con lui Dio, va verso la rovina. Questa è la tragedia: Israele si perde. La domanda di Gesù rivela amore verso quel popolo. A che gli servirà questa morte? Al Getsemani, vincendo la tentazione, Gesù aveva piena fiducia nei piani del Padre (14,36b; "non sia fatta la mia volontà, ma la tua"); ma quella accettazione non gli ha evitato il dolore né l'angoscia, che tornano ad affiorare da questo grido dalla croce. Gesù non si spiega la finalità della propria passione e morte, giacché in apparenza confluiscono in un totale fallimento della propria missione in veste di Messia di Israele.

Bisogna notare, infine, che Gesù non improvvisa la protesta, ma fa sue le parole del Salmo 22/21,1, il pianto proverbiale del giusto perseguitato, tormentato, che mostra allo stesso tempo la propria adesione incondizionata a Dio (Dio mio, Dio mio) ed il proprio stato di abbandono. Senza dubbio, parole molte volte pronunciate da altri. Si noti che l’inizio del Salmo 22 è l'unico in tutto il salterio che esprime l'abbandono da parte di Dio, ed è estremamente sorprendente in quanto non solo si afferma questo abbandono, ma se ne sottolinea soprattutto l’incomprensione che ne deriva.

Il contesto globale nel quale si inseriscono la vita, la passione e la morte di Gesù è lo stesso: il piano di Dio, che è espressione del suo amore per l'uomo. Questo piano consiste nel fatto che l'essere umano, con la pratica dell’amore, raggiunga la pienezza della vita, che sviluppi tutte le potenzialità che ha ricevuto con la creazione. Dunque, condizione senza la quale non esiste l’amore e la libertà; se l'uomo non fosse libero, sarebbe un essere programmato, senza capacità di decidere, un essere bloccato; non potrebbe rispondere spontaneamente all’invito di Dio, né alle necessità del prossimo; non sarebbe, pertanto, capace di amare e, di conseguenza, non potrebbe evolvere e, tanto meno, raggiungere la propria pienezza.

Nonostante ciò, la libertà dell’uomo è limitata e, pertanto, imperfetta. Questo è il motivo per cui l’uomo può farne un cattivo uso e cercare fini opposti all’amore. Di fatto, nell’umanità, il piano di Dio si scontra con ostacoli apparentemente insormontabili: l'egoismo, l’interesse personale, il desiderio di ricchezza e di potere, la brama di prestigio sociale, che portano al disprezzo e allo sfruttamento dei più deboli, impedendone lo sviluppo umano e privandoli persino della vita.

L’infinita compassione di Dio per l'essere umano che soffre, non poteva rassegnarsi ad assistere a questa situazione senza agire. Da lì, la lotta dell’amore di Dio contro il male nel mondo, ma questa lotta non si realizza dall’esterno, con interventi manifesti e puntuali di Dio che modificheranno il corso della storia. Dio agisce dall’interno, parte dall’intimo degli esseri umani che si aprono al suo Spirito ed assecondano il suo volere. Tramite loro passa il continuo sforzo divino per offrire all’umanità una via d’uscita alla situazione di infelicità e di miseria umana nella quale si trova e trasmettergli pienezza di vita. Per fare ciò, l’unico modo è rivelare il proprio amore agli uomini, un amore più forte del male, più forte di ciò che procura l’esperienza della vita. Egli, che è amore puro, non può agire come un Dio prepotente, che impone e minaccia, umiliando così e svalutando l’uomo.

Storicamente, la rivelazione dell’amore di Dio si realizza pienamente in Gesù, l’uomo disposto a immolarsi per il bene di tutti. Dio gli trasmette la propria vita (Figlio), lo potenzia col proprio Spirito-amore e gli affida il compito di testimoniare ciò nella società in cui vive. Questa è la missione di Gesù, della quale si è fatto carico nel Giordano: rivelare l’amore di Dio fino alla fine, affinché l’umanità lo accetti ed abbia vita.

Ma, vista l’ingiustizia che regna nella società umana, Gesù, l’uomo pieno, deve svolgere il ruolo di Messia Salvatore, per liberare l’essere umano dalle sue schiavitù, mostrargli qual’è la sua vera meta e aiutarlo a raggiungerla.

Di lì il fatto che l’attività di Gesù e consistita nell’eliminare gli ostacoli che impedivano all’essere umano di vivere con pienezza. Ha curato le malattie, si è sforzato di liberare dall’oppressione, di sopprimere le discriminazioni, di eliminare il legalismo, mettendo il bene dell’uomo come fine di tutta la legge, di restaurare l’attività e la creatività dell’essere umano, abolendo i fanatismi, creando uguaglianza e solidarietà.

E tutto ciò è stato rifiutato dai dirigenti di Israele e, con essi, dal popolo. Gesù è stato ripudiato dai suoi come un indesiderato, disprezzato, insultato, consegnato al potere pagano e condannato a morte. In questo momento di immensa desolazione, rivolge a Dio la domanda sull’utilità della sua donazione.

Tuttavia, la totale donazione ha un senso. Bisognava dimostrare al mondo che l'amore di Dio è più tenace del male, che non cede di fronte agli ostacoli, che è disposto a sopportare di tutto, a perdere il proprio prestigio di fronte all’umanità, ad essere egli stesso considerato inutile, pur di non smentire l’importanza dell’amore. Ha abbandonato Gesù in mano ai suoi nemici, ma al tempo stesso si è concesso al giudizio degli uomini. Nelle loro opinioni sarà un Dio inutile e impotente, incapace di esporsi e di difendere il proprio Messia; deve sopportare che quelli amati da lui siano maltrattati. Tutto l’orrore, il disprezzo che sperimenta Gesù ricadono sul Padre. Tutti potranno chiedergli: "Dov'è il tuo Dio? Quel Dio incapace di aiutarti?" (cfr, Sal. 42,4.11). Un Dio che non si impone con gli avversari, che si lascia sconfiggere da loro, è un Dio screditato di fronte alla società umana.

Agli occhi degli uomini, quel Dio non serve. Si svela, così, la componente imperscrutabile dell’amore di Dio.

E incomprensibile che Dio appaia come debole ed impotente, persino per difendere i suoi. Non limita la libertà umana con castighi e minacce. E un Dio umiliato, vulnerabile, che rischia, per di più, che l’uomo dubiti della sua effettiva esistenza. Ma solo un amore come il suo, che non si ritrae neanche di fronte al rifiuto ο alla negazione, è capace di vincere il male e di sconfiggere la morte.

Il cambio dell’idea di Dio che si rivela nella passione di Gesù è di tale ampiezza che pochi possono accettarlo e molti lo considereranno blasfemo. Non si era mai concepito un Dio che non si identificasse con il potere, e con un potere supremo ed assoluto. Per rispetto all’uomo, per non privarlo della possibilità di crescere, Dio si è dimostrato debole e impotente di fronte al "no" dettato dalla libertà umana, il fatto che l’efficacia del suo amore fosse assoggettata all’arbitrio dell’uomo era assolutamente impensabile.

Ma se Dio irrompesse nella storia per cambiarne il corso degli avvenimenti, svaluterebbe il libero arbitrio degli uomini, renderebbe il mondo automatico, un mondo di marionette. L’uomo smetterebbe di essere tale, e la sua crescita e la sua maturazione sarebbero rese impossibili. Sarebbe un mondo fallito. Di fatto, la libertà è l’unico modo con cui l’uomo può crescere e la gloria di Dio Creatore risiede nel fatto che l’uomo cresca al massimo delle sue potenzialità. Se ne sopprimesse la libertà, distruggerebbe l’uomo. Per questo motivo Dio non la può forzare, perché è amore; se lo facesse, smetterebbe di esserlo. L’uomo può distruggersi, ma Dio non lo farà mai.

Gli avvenimenti seguono, quindi, la logica della libertà umana; i dirigenti, per difendere la loro posizione, rifiutano il Messia; gli "uomini" (Mc 9,31) saldi nella loro mediocrità, non tollerano il modello di pienezza umana che incarna il "Figlio dell’uomo".

Quindi, il cattivo uso della libertà umana produce innumerevoli dolori e iniquità, che reclamano una risposta. Anche qui si inserisce la richiesta di Gesù. Non è stato lui l’unica vittima dell’ingiustizia. Riprendendo le parole iniziali di quel salmo ben conosciuto, si mette al livello di coloro che prima di lui hanno sofferto ingiustamente; pronuncia il lamento ancestrale del condannato innocente, del giusto, perseguitato e abbandonato, Gesù, che sta sopportando questo straziante dolore, diventa paradigma di coloro che nella storia hanno sopportato il disprezzo, la persecuzione e l’ingiustizia; si fa carico di tutti loro. Incarna e fa suo quel dolore precedente a lui, che viene dai meandri della storia, ma che in essa non ha trovato risposta.

In un atto supremo di amore all’umanità sofferente, diventa la voce di coloro che non hanno avuto voce. Da lì il commento di Marco: fwnÍ meg£lV: "con voce potente". La sua ribellione personale contro il male va associata a quella di tutti. Ma egli, che sta sopportando il supplizio, lo scherno e l’impotenza, anche se non vede il frutto del proprio lavoro, continua ad avere fede nel Padre e vuole dare una risposta a tutti i perseguitati ed umiliati senza motivo.

Non mette in discussione il successo personale, ma quello della sua missione. Sa che, insieme al Padre, fonte di vita, avrà vita per sempre. Si identifica con tutte le vittime dell’ostilità umana, per inserirle nel suo cammino di vita. L’ingiustizia non è definitiva, né Dio dimentica.

Egli contempla tutto il percorso della vita dell’uomo, non solo la parte che si sviluppa in questo mondo, ma anche quella che si espande nel mondo divino. Se si interpone la morte fisica, questa sarà superata.

C’è una dimensione ed un vantaggio personale che non dipendono dalle conquiste esterne. Quindi, il successo ο il fallimento non possono essere valutati solo con gli occhi di questo mondo.