Giovanni     Franzoni

 

Don Giovanni FRANZONI

 

Un “padre” del Concilio

 

      Don Giovanni Battista Franzoni – nato in Bulgaria nel 1928, perché là, a Varna, lavorava il padre, toscano; cresciuto a Firenze; negli anni ‘47-50 al collegio Capranica di Roma, ove si formava l’élite ecclesiastica; entrato nel ‘50 tra i benedettini, ove cambia il nome natìo di Mario in quello di Giovanni Battista (ma per la gente sarà sempre semplicemente Giovanni); studente di teologia al Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo di Roma; nel ‘55 ordinato prete – negli anni Sessanta era professore di storia e filosofia nel collegio di Farfa, legato alla grande abbazia benedettina della Sabina, cinquanta chilometri a nord di Roma.

      Il 3 marzo 1964 il Capitolo dei monaci benedettini dell’abbazia di San Paolo fuori le Mura “postula” Franzoni come proprio abate; la Santa Sede conferma la scelta. In quanto “ordinario” dell’abbazia – e dunque investito di autorità magisteriale – l’abate, seppure non vescovo, era membro di diritto della CEI e anche di un eventuale Concilio. 

     I monaci ritennero Franzoni la persona adatta per guidarli in un momento davvero eccezionale: si stava, infatti, celebrando il Vaticano II. Un Concilio – una coincidenza che fa riflettere – che papa Giovanni aveva annunciato per la prima volta proprio nell’abbazia di San Paolo. Il 25 gennaio 1959, infatti, dopo aver celebrato nella basilica la festa liturgica del giorno (la conversione di San Paolo), il pontefice aveva riunito in una saletta dell’abbazia il gruppetto di cardinali presenti e comunicato loro – sbalorditi – la sua intenzione di convocare un nuovo Concilio ecumenico.

      Franzoni, come abate, divenne automaticamente “padre” conciliare: allora, il più giovane dei “padri”. Partecipò alla terza ed alla quarta (ultima) sessione del Concilio, che Paolo VI concluse l’8 dicembre 1965.

 

Un monastero “dentro” le mura

     L’abate si dedicò con entusiasmo alla riforma liturgica e, anche, all’ecumenismo, promuovendo le “Settimane di San Paolo”, giornate di studio – ogni 18 mesi – in cui esegeti cattolici, ortodossi e protestanti approfondivano, in fecondo dialogo, aspetti della vita e delle lettere dell’apostolo delle genti. Ma, nel contempo, iniziò sempre più a domandarsi – insieme ai confratelli – quale fosse il ruolo di un monastero ormai “dentro” la città.

     La domanda di “se” e “come” inserire il monastero nella vita tumultuosa della città, che ormai lo rinserrava da ogni parte (il quartiere Ostiense nel Novecento era rapidamente cresciuto, e alla metà del secolo era ormai una zona popolare e popolatissima del tutto “dentro” Roma) incrociò un’altra decisiva domanda: “se” e “come” aprirsi alla partecipazione della gente (oltre che abbazia, San Paolo era allora anche parrocchia), per affrontare insieme i problemi locali e, anche, quelli più vasti del mondo e delle Chiese. Del resto, non aveva il Concilio sottolineato che la Chiesa è il “popolo di Dio”? Quest’affermazione pregnante, radicata nella Scrittura, era da intendersi solo in modo astratto e spiritualistico o non esigeva, invece, nei fatti, la corresponsabilità di tutti i fedeli nella vita e nelle scelte di ogni comunità e Chiesa locale?

      L’occasione per formalizzare questo “aggancio” fu offerta dall’enciclica di Paolo VI sullo sviluppo dei popoli, pubblicata il 26 marzo 1967. Ricorderà infatti don Giovanni, qualche anno dopo (cf. Rosario Mocciaro, La comunità dell’abate Franzoni, Napoleone ed., Roma 1973, p. 217): “’La comunità (cattolica) di san Paolo’ è nata proprio quando Paolo VI pubblicò la Populorum progressio. Fu allora che mettemmo in piedi gruppi di studio per esaminare i problemi del Terzo mondo. La nostra vicenda è nata proprio da un gesto di fedeltà a Paolo VI. Certo, avvicinarsi ai problemi provoca un’analisi, un approccio alla realtà. Finimmo, inevitabilmente, studiando il Terzo mondo dell’atlante geografico, per scoprire il Terzo mondo che è appena al di là di queste mura”.

     I gruppi di studio cui accennava don Giovanni erano formati da qualche monaco e da gente della parrocchia, o che comunque gravitava attorno alla basilica di san Paolo: operai, uomini e donne, insegnanti, impiegati, professionisti, giovani (in particolare scouts e aderenti all’Azione cattolica). In tale contesto nasce un affiatamento che sboccerà, ogni sabato sera, in un incontro della gente disponibile con don Franzoni, per aiutarlo a preparare l’omelia della domenica, alla messa di mezzogiorno, quella appunto celebrata dall’abate.

     In Omelie a San Paolo fuori le mura di don Giovanni Franzoni raccolte dalla Comunità (Mondadori, 1974) si possono leggere tali testi che, oggi, avranno la patina del tempo, e meraviglierà forse che turbassero così tanto lo “status quo” ecclesiastico e politico; e, tuttavia, allora impressionarono perfino un uomo come Pier Paolo Pasolini, che commentò quelle omelie con forti e commosse parole. Per par condicio aggiungeremo che Indro Montanelli attaccò Franzoni, definendolo “l’abate che piange con un occhio solo”, nel senso che Giovanni avrebbe denunciato la guerra americana contro il Vietnam tacendo, invece, sulle storture del comunismo.

     Gli incontri dell’abate, il sabato sera, si svolgevano al pian terreno – quello aperto al pubblico – del monastero, nella “sala rossa” (così chiamata per la tappezzeria di un bel tessuto rosso-fuoco che ne ricopriva le pareti); un luogo-simbolo del gruppo laico che a poco a poco si consolida, e assume un suo nome – “Comunità cattolica di san Paolo” – per distinguersi, al fine di evitare confusioni o corresponsabilità non richieste, dalla comunità monastica di san Paolo.

 

Speranze ed utopie sull’onda del 1968

      L’“effervescenza” che animava l’esperienza di don Giovanni e quella della “Comunità cattolica di san Paolo”, va inquadrata naturalmente in un preciso contesto storico, sociale ed ecclesiale: il 1968 con tutte le energie, le attese, le utopie che la grande contestazione studentesca ed operaia aveva suscitato anche in Italia; la lotta nonviolenta (Franzoni era anche un ammiratore e studioso di Gandhi) di Martin Luther King per combattere il razzismo negli Stati Uniti d’America e poi la morte del profeta, assassinato nell’aprile ’68; i movimenti di liberazione in America latina ed in Africa; la II Conferenza generale dell’episcopato latino-americano a Medellin (Colombia, 1968) che in qualche modo aprì la strada a quella che sarà la “teologia della liberazione”; l’eco ancora incombente del Vaticano II, un Concilio che in molti aveva creato la illusione che una radicale riforma della Chiesa romana fosse possibile e ormai imminente.

    E, ancora: l’ascolto delle  voci profetiche – come quelle di p. Ernesto Balducci e p. David Maria Turoldo – che insistentemente pungolavano la Chiesa cattolica italiana; il collegamento con le Comunità cristiane di base che stavano nascendo anche in Italia (nel ’68 ci fu a Firenze l’esplosione della vicenda dell’Isolotto) e che nel ’71 avrebbero tenuto, proprio a Roma, il loro primo convegno nazionale; la messa in discussione, in Italia, da parte di alcuni gruppi ecclesiali, del “dogma” della unità politica dei cattolici; l’avvio, negli anni 66-70, di nuove riflessioni teoretiche su Cristianesimo e marxismo che infine, nel 1972, a Santiago del Cile, porteranno alla nascita dei  “Cristiani per il socialismo”, esperienza che nel ’73 sorgerà ufficialmente anche in Italia.

     Anche ispirati da tutti questi input, don Giovanni e la “Comunità cattolica” assumono posizioni, e fanno scelte, che scuoteranno l’establishment ecclesiale e politico romano: solidarietà agli operai che, nel quartiere Ostiense, occupano una fabbrica; denuncia del militarismo (e quindi richiesta al Quirinale di ripensare la “parata militare” del 2 giugno per celebrare la “festa della Repubblica”); solidarietà per il Vietnam; analisi critica dell’intreccio politico tra gerarchie ecclesiastiche e Democrazia cristiana; denuncia del Concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, per i privilegi e spazi di potere che esso dava all’istituzione ecclesiastica; istanze di  partecipazione del “popolo di Dio” alla vita, ai problemi e anche alle decisioni su tutti i problemi ecclesiali.

     Nel ‘71 Franzoni avrà poi una parte decisiva nella preparazione e, nel ’72, nella nascita di Com, settimanale del “dissenso cattolico” e molto legato alle Comunità cristiane di base [nel settembre ’74 si fonderà con il settimanale evangelico Nuovi tempi e nell’89 si trasformerà nel mensile di dialogo ecumenico ed inter-religioso Confronti].

      In basilica Franzoni conservò sempre una messa domenicale – quella delle ore 10,30 – in latino, accompagnata dal canto gregoriano che a Giovanni piaceva molto. Ma ritenne che la messa domenicale di mezzogiorno dovesse aprirsi ad altre sensibilità. Invitò la gente ad andare al microfono, durante la “preghiera dei fedeli”, per proporre una libera intenzione (si sentirono così “orazioni” per ottenere la “conversione” delle strutture ecclesiastiche oppressive o colluse con i potenti; cosa che, riferita, irritò molti in Vaticano); e fu felice che i ragazzi e le ragazze del coro iniziassero ad usare le chitarre, per accompagnare i canti. Questa “novità” apparve scandalosa (oggi ciò può sembrare incredibile, ma allora fu così) ad una parte rilevante del “mondo cattolico” romano; e irritò particolarmente un gruppetto di cattolici tradizionalisti di Civiltà cristiana che aveva iniziato sistematicamente a “controllare” don Franzoni, considerato sempre più “pericoloso”. Per “difendere la tradizione” questi provocatori – legati ad alcune frange missine – arriveranno, durante una messa in basilica, a spaccare le chitarre dei suonatori.

 

Le manovre della Curia

     Ma questa bravata fu solo la manifestazione colorita di una opposizione ben più corposa che, tra le quinte, stava crescendo in larga parte della Curia romana (oltre che nell’area democristiana) contro don Franzoni. Così si avviò, nell’ombra, il procedimento per farlo dimettere. Alla fine del ’71 una “visita canonica” (interna alla Congregazione benedettina cassinese alla quale era legata l’abbazia di san Paolo), sollecitata dal Vaticano, dimostra però che la maggioranza dei monaci ha fiducia in Franzoni. La Santa Sede ricorre allora alla “visita apostolica” – cioè un’indagine inquirente, coperta da segreto.

     La “visita apostolica”, affidata all’abate vallombrosano Enrico Baccetti, e compiuta nel giugno ’72, si conclude in modo spiacevole per il Vaticano, perché la maggioranza dei monaci difende l’abate. Ma in luglio la Congregazione dei religiosi – l’organismo curiale che sovrintende ai monaci, ai frati, alle suore del mondo intero; e che aveva allora come segretario un benedettino tedesco, Agostino Mayer – con un colpo di mano cambia la struttura del “Regime”, organo di governo della Congregazione benedettina cassinese, formato da cinque membri (Franzoni, allora, tra loro): il “Regime” viene “commissariato” e d’autorità ridotto a tre membri (tra loro non vi è più Franzoni), e posto sotto la presidenza – cosa inaudita, che lede la secolare autonomia dei Cassinesi – dell’abate generale della Congregazione benedettina silvestrina, don Simone Tonini.

     In tale contesto, nel dicembre successivo Tonini effettua una seconda “visita canonica”, ma non comunica né ai monaci né all’abate il risultato della “consultazione”. In proposito, solo nel marzo ’73 mons. Mayer rende noto a Franzoni che appena un terzo dei monaci desidera che lui rimanga abate.

     Quando il cerchio si sta sempre più stringendo, Franzoni viene convocato da mons. Giovanni Benelli, allora potente Sostituto della Segreteria di Stato vaticana. Il prelato esamina con l’abate pacchi di documenti e articoli di Franzoni, o della stampa su di lui. A mano a mano che l’esame procede – e passano oltre due ore – Benelli è costretto ad ammettere che nei pronunciamenti di Franzoni non vi è nulla contro la fede; e che l’abate riafferma sempre la sua “comunione” con il papa. Ad un certo punto, però, monsignore esclama: “Si ricordi, caro padre abate, che nella Chiesa è la Segreteria di Stato che fa la politica”. E con ciò l’udienza fu chiusa. Né allora, né poi, Franzoni fu ricevuto da Paolo VI; e quindi non poté mai spiegarsi con lui a viva voce.

     E’ in tale contesto che, insieme ad un gruppo della “Comunità cattolica”, ed a qualche monaco, Giovanni inizia a preparare La terra è di Dio, tenendo anche presente che, secondo voci ecclesiastiche, presto Paolo VI avrebbe annunciato il Giubileo del ’75. In effetti, mentre il progetto della lettera pastorale è già abbastanza abbozzato, il 9 maggio 1973 il papa, pur un poco esitando ma infine decidendosi per il sì, preannunzia che, tra due anni, si celebrerà il Giubileo (che, secondo la tradizione romana, si doveva appunto tenere ogni venticinque anni; l’ultimo era stato quello del 1950).

     La terra di Dio, datata 9 giugno, viene data da don Giovanni, come primizia, al priore dell’abbazia di san Paolo e alle monache di Civitella; e quindi diffusa su Com il 14 (il settimanale portava la data del 17). Grande l’eco sulla stampa, che sottolinea la denuncia di Franzoni contro le compromissioni del Vaticano per la speculazione edilizia a Roma, città dal dopoguerra sempre governata dai democristiani. Nella stessa lettera don Giovanni fa capire che la sua vita monastica in abbazia è giunta al termine; e che egli si accinge a vivere sì da monaco, ma in una comunità “immersa nella condizione violenta della città”. Non parla di dimissioni, ma le lascia intuire. Formalmente egli si dimetterà un mese dopo, il 12 luglio, all’indomani della festa liturgica di San Benedetto.

     La “lettera pastorale” fu tradotta in francese; considerata fonte di ispirazione da molti vescovi brasiliani; e variamente citata dalla stampa internazionale.

     Accolta con imbarazzo dalla CEI e dal Vaticano, la lettera sollecitò invece, nel settembre ’73, una reazione del card. Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino. Abbiamo ri-pubblicato anche questo testo, che dimostra il coraggio del porporato – ricordiamo, per inciso, che anche mons. Luigi Bettazzi, allora vescovo di Ivrea, espresse cordiale stima per Franzoni.

 

L’”esodo” del 1973

     Il 20 agosto la Santa Sede accetta le dimissioni di Franzoni da abate. Giovanni, ormai semplice monaco benedettino, e la “Comunità cattolica”, si interrogano sul da farsi. La decisione fu che era giusto continuare insieme. Ma, dove, fisicamente, riunirsi? In un fabbricato, situato a mezzo chilometro dalla basilica, in via Ostiense 152 B, che a piano terra aveva uno stanzone già usato da “Mani tese” – un gruppo cattolico di solidarietà che raccoglieva carta straccia per venderla e inviare il ricavato in Africa ed America latina. Lo stanzone era poi stato abbandonato. Ripulito alla meglio sia al pian terreno che al primo piano, il locale era pronto per accogliere la Comunità.

     Domenica 26 agosto ’73 Franzoni celebra per l’ultima volta nella basilica Ostiense, e qui, di fronte a tre mila persone, pronuncia la sua ultima omelia e il suo commiato. Quel giorno stesso egli si trasferirà, accolto fraternamente come un fratello, dai camaldolesi di san Gregorio al Celio, non lontano dal Colosseo; e, qualche tempo, in un piccolo appartamento in via Ostiense.

     Il pomeriggio di domenica 2 settembre, presenti molte persone, Giovanni celebra la prima messa nello stanzone.  In effetti, il 21 agosto Franzoni aveva chiesto al card. Ugo Poletti, vicario di Roma, il permesso di celebrar messa nel citato locale. L’indomani il porporato aveva risposto di non poter “né autorizzare, né proibire la celebrazione”, e di “rimettere alla tua coscienza sacerdotale la soluzione provvisoria del caso”. Franzoni interpretò che la celebrazione dell’Eucaristia nel locale di via Ostiense era dunque “tollerata”. Ma Poletti replicò: “Io non l’ho detto”.

     L’11 settembre ’73 il presidente costituzionale del Cile, Salvador Allende, viene rovesciato da un golpe preparato dalla CIA ed attuato dal generale Augusto Pinochet. La vicenda – che scosse il mondo – ebbe particolare eco anche nella nostra Comunità, perché presto esiliati e profughi politici cileni cominciarono a frequentare il nostro gruppo.

     Mentre la Cdb avviava la sua nuova vita, affrontando i molti e nuovi problemi ecclesiali che la incrociavano, cominciava a profilarsi all’orizzonte una questione squisitamente politica, ma dalla forte ricaduta ecclesiale: il referendum – voluto dalla Dc, dai Comitati civici legati ai democristiani e ad ambienti vaticani, dal Movimento sociale – sulla legge Fortuna-Baslini sul divorzio, votata dal parlamento ed in vigore dal dicembre 1970.

     Il 21 febbraio ’74 il Consiglio permanente della CEI – allora guidata dal card. Antonio Poma, arcivescovo di Bologna – emanava un documento importante (ma, si apprese, al momento del voto il card. Pellegrino era uscito dall’aula). Infatti, con una Notificazione i vescovi vincolavano in sostanza i cattolici, e sollecitavano i cittadini, a votare “sì” per l’abrogazione della legge, nel referendum che si sarebbe svolto il 12-13 maggio. Diceva il testo: “Alla luce della Parola di Dio, la Chiesa ha costantemente insegnato che il matrimonio è indissolubile, non soltanto come sacramento, ma anche come istituto naturale… Il cristiano, come cittadino, ha il dovere di proporre e di difendere il suo modello di famiglia”.

 

Il referendum del 1974

     L’intervento dei vescovi ebbe grande eco. I “laici” accusarono la CEI di “interferenza” nella vita politica italiana. La Cdb di san Paolo si mobilitò per difendere, anche per i cattolici, la libertà di coscienza nel voto. In tale contesto, aiutato dalla comunità, Giovanni scrive Il mio regno non è di questo mondo. Una risposta alla notificazione della CEI sul referendum (testo pubblicato allora da Com e poi ri-pubblicato nel ’76 in Tra la gente, un libro edito da Com-Nuovi tempi).

     Il documento – di cinquanta pagine, datato 14 aprile ’74, giorno di Pasqua – ripercorre le Scritture, la storia della Chiesa, il sentire del popolo cristiano, per concludere: 1/ nell’insegnamento della Chiesa romana sul matrimonio vi sono evidenti contraddizioni; 2/ con il referendum i cattolici italiani non sono chiamati a votare pro o contro un sacramento, ma semplicemente a giudicare in coscienza una legge prevista per risolvere situazioni matrimoniali altrimenti insanabili; 3/ dunque si doveva rispettare la scelta di coscienza e la responsabilità individuale; 4/ se le autorità della Chiesa romana volevano rimanere fedeli alla dichiarazione Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, varata dal Concilio nel 1965, non potevano che ribadire il loro rispetto per le scelte di coscienza che avessero compiuto i cattolici italiani.

     Idee che Giovanni (come molti altri e altre della Comunità, preti e laici/e) porterà in giro per l’Italia in decine di incontri. Il 24 aprile ’74 l’abate presidente della Congregazione benedettina cassinese, don Angelo Mifsud, consegna a Franzoni una lettera in cui intima al monaco di cancellare, pena la sospensione a divinis, ogni dibattito pubblico. Franzoni – appoggiato dalla Cdb – contesta l’ordine come ingiusto, e ricorda che comunque egli da tempo ha preso un impegno per la sera stessa del 24, a Bergamo, e per due giorni dopo a Roma, alla fabbrica Fatme e al quartiere Tuscolano.

     A Bergamo (cf. Davide Palumbo, Fuori le Mura. Fatti e documenti per la storia della Comunità di base di san Paolo in Roma, Borla 1994, p. 195) la Camera di Commercio nega la sala, pur giorni prima assicurata. Piove a dirotto; la gente è in strada. Allora i gesuiti accolgono i molti convenuti nella vicina chiesa di san Pietro. Franzoni non terrà la conferenza promessa sul referendum, ma spiegherà ai presenti: “Da tempo nelle nostre comunità di base non si fa che parlare di una ricerca di fedeltà al Vangelo, ci si sforza di recuperare l’autenticità e la genuinità nella fede… Ma il nostro discorso appare pericoloso: perché? Forse perché stiamo cercando di condurre la ricerca anche a livello di base, e non solo tra i teologi. Per questo un discorso come il nostro, che pur affonda le sue radici nella tradizione del nostro popolo, che non nega nessuna verità del Vangelo e non contesta neppure la necessità di avere dei ruoli, cioè dei ministeri, nella Chiesa, è invece un discorso che disturba tanto: perché tocca il punto di saldatura, l’articolazione tra le fede religiosa e il potere politico ed economico. Perché nel momento in cui una religione alienante, fatta di incensi, di intimismi, di moralismi, si trasforma in una fede responsabilizzante, come quella predicata da Cristo, in quel momento la casta sacerdotale va in pensione”.

 

La sospensione “a divinis”

     Come gesto di buona volontà, comunque, il 26 aprile ’74 Giovanni ribadisce di volersi astenere, per il prossimo futuro, da ogni dibattito pubblico, e dunque annulla anche i due impegni per Roma. Ma la mattina seguente don Ambrogio Porcu, procuratore dei Cassinesi, notifica a Franzoni la sospensione a divinis “latae sententiae” (la proibizione, automatica, di celebrare i sacramenti). Giovanni definisce ”illegale” la punizione; la Cdb, per protesta, decide di non celebrare l’Eucaristia, il giorno dopo, domenica, limitandosi alla “liturgia della Parola”.

      La punizione di Franzoni ha forte risonanza nel mondo politico e in quello ecclesiale. Centinaia e centinaia di persone, ed esponenti di movimenti legati alla gerarchia ecclesiastica, inviano a Giovanni la loro solidarietà; duecento sacerdoti firmano un appello a suo favore; anche vicari generali di alcune diocesi inviano la loro solidarietà. Ma il 28 aprile il card. Poletti esprime “pieno consenso” alla punizione contro Franzoni decisa – formalmente – dalla Congregazione cassinese.

     Il 12 e 13 maggio finalmente si vota. Risultato: circa il 60% di “no” all’abrogazione della legge sul divorzio e il 40% di “sì”. Increduli e smarriti, molti prelati scoprono le sorprese di un’Italia che, secondo le statistiche vaticane, è “cattolica” al 98%. Titolerà Com: “Requiem per una crociata”.

     Il 30 maggio, l’abate primate dei benedettini, don Rembert Weakland, comunica a voce a Giovanni che la Congregazione dei religiosi riteneva che l’unica possibilità per togliergli la “sospensione” era che egli si trasferisse, per un anno almeno, in un monastero benedettino in Francia. Tempo per decidere: entro l’8 giugno. E l’8 giugno, con due lettere – a Weakland ed alla Cdb – Giovanni afferma di non sentirsela di abbandonare il paese mentre accadono gravissimi eventi (il 28 maggio i fascisti avevano organizzato la strage di Brescia). Da parte sua, la Cdb scrive una “Lettera aperta alla Chiesa di Dio che è in Roma, ed a tutte le Chiese”, in cui denuncia le manovre ecclesiastiche in atto ed invita Giovanni a restare, rifiutando l’”esilio” che gli si prospetta.

     Il 19 luglio Giovanni viene dimesso dall’Ordine benedettino, rimanendo semplice prete – seppur ancora “sospeso”.

 

Pasqua 1975: pur “sospeso”, Franzoni riprende a celebrare

      La notte di Natale del ’74 Paolo VI apre solennemente il Giubileo – l’evento cui Franzoni aveva dedicato La terra è di Dio – dandogli per tema: “Il rinnovamento e la riconciliazione”. La Cdb apprende che il 25 gennaio ’75 il papa si recherà alla basilica di san Paolo. Per raggiungere la chiesa il corteo papale dovrà necessariamente passare per via Ostiense, e quindi anche di fronte ai locali della Comunità. Questa circostanza fa nascere una idea: “Perché non invitiamo il papa a fermarsi da noi?”. L’invito, sollecitamente spedito al card. Jean Villot, Segretario di Stato vaticano, non fu però accolto.

     Nel marzo ‘75 Poletti fa sapere a Giovanni che non avrebbe potuto incardinarlo nella diocesi di Roma (il Codice di diritto canonico proibisce i preti “apolidi”, cioè che non dipendano da un vescovo o da un superiore religioso). Franzoni chiede al cardinale: le autorità ecclesiastiche avrebbero ritenuto un “gesto di rottura” se egli avesse ripreso a presiedere l’Eucaristia? Il porporato non proibisce, né autorizza il gesto, lasciandone la responsabilità al richiedente. Infine, fortemente sollecitato dalla Cdb, e infine convinto dalle ragioni da questa apportate, il 30 marzo ‘75, domenica di Pasqua, Giovanni riprende a presiedere l’Eucaristia in Comunità.

     Scrive il 5 aprile L’Osservatore romano: “La sospensione a divinis è tuttora valida, perché don Franzoni non ha fatto nulla per rimuoverne le cause… Gli atti di ministero posti da don Franzoni il giorno di Pasqua sono dunque gravemente illeciti e da valutarsi secondo le vigenti norme canoniche. Don Franzoni non può vantare nessun consenso implicito, né tanto meno esplicito, da parte di coloro che ‘lo Spirito santo ha posto come vescovi a reggere la Chiesa di Dio’ (At. 20, 28)”.

      Due anni dopo, il 3 aprile ’76 mons. Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma-Sud, fa visita alla Comunità. Riva, rosminiano, è legato da rapporti di amicizia con Giovanni; a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta insieme avevano lavorato, come rappresentanti dei religiosi, in alcune commissioni della CISM (Conferenza italiana Superiori maggiori) e della diocesi di Roma.

      Si prega insieme ma, anche, la gente della Comunità pone al prelato domande, legate soprattutto alla vicenda del referendum e alla punizione di Franzoni. Risponde il vescovo: “Sono contento di essere venuto tra voi. Sono venuto qui per ascoltare, rendermi conto e riflettere. Ho pregato volentieri insieme con voi. Se dessi tutte le risposte che mi chiedete, significherebbe che sono un uomo che può dare risposta a tutto e, quindi, che ha potere. Non ho invece questa possibilità, non sono un uomo di potere”. Mons. Riva afferma anche di considerare la Comunità di san Paolo “una realtà di fede situata nel territorio affidato alla mia cura pastorale”.  La Cdb visse questa visita come un grande segno di speranza.

      Il 6 giugno ’76 la Comunità pubblica La violenza nella città e nella Chiesa di Roma, quale contributo al primo Convegno ecclesiale nazionale, programmato a Roma dalla CEI per l’ottobre successivo, su “Evangelizzazione e promozione umana”. Nel testo si denunciano le compromissioni ecclesiastiche con il potere politico dominante.

 

”Voterò per il Pci”

     Il documento della Cdb esce mentre, all’interno della Chiesa italiana, alta è la polemica innescata dal fatto che sei intellettuali cattolici – Paolo Brezzi, Mario Gozzini, Raniero La Valle, Piero Pratesi, Angelo Romanò, Massimo Toschi – avevano annunciato che si sarebbero presentati come indipendenti nelle liste del Partito comunista italiano alle elezioni politiche del 20 giugno. Con chiaro riferimento a queste candidature, già l’11 maggio la presidenza della CEI aveva chiesto che si evitassero “scelte che sono in aperto contrasto con il messaggio cristiano e che possono mortificare la comunione ecclesiale”. Gli “indipendenti” replicarono che la loro scelta non comportava una adesione al marxismo, ma solo la volontà di contribuire a cambiare un sistema politico usurato. Padre Turoldo, Franzoni e altri preti espressero la loro solidarietà ai candidati, plaudendo alla fine della “unità politica dei cattolici”.

     Da parte sua, su Com-Nuovi tempi Giovanni scrive che alle imminenti elezioni egli voterà per il Pci. Un annuncio che suscita molti, disparati commenti. Il 20 giugno il card. Poletti indica a Franzoni le uniche tre soluzioni “possibili”, da scegliere “entro dieci giorni”: “1. Un ritorno umile e sincero alla disciplina ecclesiale, che comporta in primo luogo una dichiarazione precisa e pubblica di riconoscimento degli errori commessi e di accettazione delle disposizioni che potranno essere adottate; 2/ una domanda di riduzione allo stato laicale; 3/ accettare la riduzione allo stato laicale ‘in poenam’ [per castigo]”. La Cdb, in un documento inviato anche al porporato, il 28 giugno riafferma il diritto di Giovanni, come di ogni cattolico, di fare autonomamente le sue scelte politiche.

     Franzoni, il 30 giugno, invia a Poletti una “professione di fede”. In essa precisa: “La mia tensione con l’autorità ecclesiastica non è mai dipesa, come ben sai, da motivi di fede, ma da mie scelte politiche, che non ritengo erronee anche se in contrasto con la linea ufficialmente portata avanti dalla CEI… Mi sento prete fino in fondo e quindi non chiederò mai la riduzione allo stato laicale, anche perché, come meglio ti spiega il documento della Cdb di san Paolo [del 28 giugno], noi non riteniamo che il ministero sia un affare privato tra un prete e il suo vescovo”.

      Il 7 luglio mons. Riva invita Franzoni in Vicariato, per un colloquio con Poletti. Si tratta, di fatto, di una seduta processuale, senza che Giovanni sia assistito da alcun avvocato. Il cardinale chiede all’inquisito di chiarire, entro il 12 luglio, due imputazioni: l’adesione a dottrine [il comunismo] riprovate dalla costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II; lo “scandalo” dato ai fedeli con un “dissenso continuo” contro l’autorità ecclesiastica. Il 12 luglio Franzoni risponde, negando risolutamente di aver mai aderito al comunismo ateo.

     Anche tenuto conto dei buoni uffici che avrebbe potuto svolgere mons. Riva, qualcuno nella Cdb immaginava che il contrasto Poletti-Franzoni (ma dietro al cardinale c’era la Curia vaticana!) si sarebbe potuto sanare.

 

La riduzione allo stato laicale

      Il 22 luglio Paolo VI sospende a divinis mons. Marcel Lefebvre, il vescovo tradizionalista francese che, prima in Concilio, e ancor più dopo, aveva contestato alcuni punti-chiave del Vaticano II (quali la dichiarazione sulla libertà religiosa, il ripudio dell’accusa di “deicidio” agli ebrei, la riforma liturgica). In certi settori della Curia romana Lefebvre era visto con simpatia, come un’“ariete” per opporsi alla attuazione del Vaticano II e contrastare le “esagerazioni” dei “conciliari”. Per questo, la sospensione del prelato provoca una sorda resistenza in alcuni settori vaticani, ove si accusa Montini di “parzialità”: inflessibile con i “conservatori”, tollerante con i “progressisti”.

      In tale contesto il Vaticano equilibra la “bilancia”, formalizzando la punizione minacciata contro Franzoni ma non ancora attuata. Il 2 agosto il card. Poletti – con l’esplicita approvazione del papa – emana il decreto di riduzione di Giovanni allo stato laicale, con dispensa da tutti gli obblighi connessi con l’ordinazione sacerdotale (tra essi la recita quotidiana del breviario e il celibato). Le motivazioni: “Il profondo turbamento che l’atteggiamento di don Giovanni Battista Franzoni ha causato e continua a causare nel popolo di Dio”; le sue “ripetute disubbidienze”; il rifiuto, a due anni dalla sospensione a divinis, di dare “segni di effettiva resipiscenza”.

    In una lettera che accompagnava il decreto, Poletti scriveva a Giovanni: “E’ la contestazione che rompe l’unità [della Chiesa], non già la correzione… Oggi molti forse ti applaudono e ti invitano a resistere. Sei molto più sulla strada della pubblicità umana che della umiltà evangelica. Ma verranno anche per te i giorni della delusione, della prova, della solitudine. Sarai allora veramente un ‘povero’ e potrai sempre ritornare, se rinnovato nel cuore, con umiltà e fiducia alla casa del Padre, dove il Papa e molti fratelli ti aspettano e ti riceveranno con gioia”.

     Il 4 agosto la sala-stampa vaticana, con una “dichiarazione verbale”, presenta una propria “ricostruzione dei fatti”. Vi si afferma che Franzoni “intende la Chiesa come una società democratica, tutta rivolta al piano sociale, con un ordinamento lasciato al giudizio dei singoli… Egli è stato ed è favorevole al divorzio; considera l’ordine sacro dipendente dal volere della comunità ed a questa subordinato; nega esplicitamente il primato di magistero e di governo del Sommo pontefice.” Infine, Franzoni purtroppo si è fatto “strumentalizzare dalla sedicente ‘Comunità laica di san Paolo’, come massa di manovra più agile e più libera, ossia meno esposta, nel portare gli attacchi alla Chiesa istituzionale”.

     Franzoni, ignaro, apprende della sua “riduzione” mentre si trova a Nusco, in Irpinia, per una conferenza. La notizia lo turba profondamente.

     Il 7 agosto la Cdb di san Paolo denuncia la “sostanziale arbitrarietà” del provvedimento ecclesiastico contro Giovanni, basato su una “ecclesiologia autoritaria”. Il 10 agosto mons. Bettazzi, sul settimanale diocesano di Ivrea, scrive una lettera di sostanziale solidarietà a Franzoni. Giovanni si prende un po’ di tempo, e risponde a Poletti il 7 settembre: “Che nei miei confronti non ci fossero vere accuse di carattere dottrinale emerge con chiarezza dal tuo decreto stesso… Se considerai invalida la ‘sospensione’ perché comminatami in forma non canonica dalla Congregazione benedettina, non posso considerare invalido il decreto di laicizzazione: esso è stato approvato dal Romano pontefice e pertanto nel sistema giuridico della Chiesa esso è da considerarsi formalmente valido in base all’attuale normativa canonica. In altra sede e con altri strumenti dovremo approfondire e far conoscere il fatto che nell’istituzione che è la Chiesa romana, si vive senza alcun diritto di difesa e si può essere condannati in base ad una procedura assurda ma legittimata da un potere monarchico in cui risiede una sorta di pienezza di potestà che può al limite sostituire la legge. Debbo quindi obbedire, ed obbedisco…”.

     “Quando pensai di andare a vivere tra la gente, di lavorare come gli altri e di conoscere la precarietà della condizione dei lavoratori – continua Giovanni – mi ero forse dimenticato che sul mondo dei lavoratori, oltre che la piaga della disoccupazione, della emigrazione e delle ristrettezze economiche, in Italia grava anche la ‘scomunica’ [comminata nel 1949 dal Sant’Uffizio ai comunisti atei]. Anche se questa non è poi così chiara, non puoi negare che gli operai o gli altri lavoratori che votano per i ‘loro’ partiti, quelli che sono espressione della classe operaia, non sono ben visti dalla gerarchia”.

       “Ebbene – conclude Franzoni – io ho inteso ed intendo restare ‘ostaggio’ di questa massa di emarginati dalla Chiesa per motivi politici, finché chiarezza non sarà fatta per tutti. Nella Chiesa ci siamo, ma emarginati e sospetti; torneremo ad esserci con la pienezza dei nostri titoli e ministeri quando nella Chiesa non ci si chiederà più l’amputazione delle nostre scelte politiche. Prepara dunque la festa, giacché le monete che hai smarrito le ritroverai (Luca 15, 8-10), ma le ritroverai tutte insieme; non rientreremo noi preti colpiti da soli, ma rientreremo con tutti i compagni e le compagne che abbiamo incontrato nel frattempo nelle lotte di fabbrica o nei campi, nelle lotte di quartiere o nella solidarietà con i popoli del ‘Terzo mondo’. Quando nella Chiesa potremo starci tutti, dichiarando ad alta voce le nostre scelte politiche, allora sarà festa grande”.