Paolo Zannini

 

PRIMO INCONTRO: lettera a Diogneto

 

Quesiti posti da Diogneto

Vedo, ottimo Diogneto, che tu ti accingi ad apprendere la religione dei cristiani e con molta saggezza e cura cerchi di sapere di loro. A quale Dio essi credono e come lo venerano, perché tutti disdegnano il mondo e disprezzano la morte, non osservano la superstizione degli ebrei, che è questo tenero amore che essi hanno gli uni per gli altri, e perché questo nuovo popolo  e maniera di vivere siano comparsi al mondo ora e non prima. Comprendo questo tuo desiderio e chiedo a Dio che ci fa parlare e ascoltare, che mi sia concesso di parlarti perché tu ascoltando divenga migliore e a te di ascoltare perché chi ti parla non abbia a pentirsi”.

Prime confutazioni

“Chi fra tutti gli uomini sapeva che cosa è Dio, prima che egli venisse? Vorrai accettare i discorsi vuoti e sciocchi dei filosofi degni di fede? Alcuni affermavano che Dio è il fuoco […], altri dicevano che è l’acqua, altri che è uno degli elementi da Dio creati. Certo, se qualche loro affermazione è da accettare si potrebbe anche asserire che ciascuna di tutte le creature ugualmente manifesta Dio […]. Nessun uomo lo vide e lo conobbe, ma egli stesso si rivelò a noi. Si rivelò mediante la fede, con la quale solo è concesso vedere Dio. Dio nostro Signore e creatore dell’universo, che ha fatto tutte le cose e le ha stabilite in ordine, non solo si mostrò amico degli uomini, ma anche magnanimo. Tale fu sempre e sarà: eccellente, buono, mite e veritiero, il solo buono” (cap 8,1-8)

Chi sono realmente i cristiani

Cristiani non si distinguono né per patria, né per lingua, né per comportamento dagli altri uomini. Non abitano infatti in cittadelle private da nessuna parte, non utilizzano alcuna lingua alternativa, non sfoggiano alcuno speciale genere di vita. Non si riesce a trovare fra di loro nessun insegnamento dovuto alla riflessione o alla genialità di uomini particolarmente dotati né alcuna verità [filosofica] umana, come succede con altri. Abitando [indifferentemente] in città greche oppure barbare, seguendo nel cibo, nel vestito e in tutto il resto i costumi del luogo in cui è capitato loro di trovarsi, manifestano l’assetto straordinario e, per confessione di tutti, paradossale della loro vita da cittadini [dell’impero romano]. Abitano nella propria patria da stranieri; condividono tutto da concittadini, ma restano fuori da tutto quasi fossero ospiti; ogni terra straniera è loro patria e ogni patria  (è a loro) terra straniera. Contraggono nozze come tutti gli altri, mettono al mondo figli, ma non espongono i nati. Hanno in comune la tavola [imbandita] non il letto. Pur essendo di carne, non vivono secondo [le leggi de])la carne. Si occupano [delle cose] della terra, ma hanno la cittadinanza su nel cielo. Obbediscono alle leggi [dello stato] ma superano con la propria vita quelle leggi. Amano tutti nonostante ricevano persecuzioni da tutti. Ignorati eppure condannati; messi a morte e trattenuti in vita. Impoveriscono, ma arricchiscono molti; bisognosi di tutto; sovrabbondano in tutto. Disonorati e, nel disprezzo, coronati di gloria; bestemmiati e dichiarati giusti. Ingiuriati, benedicono; maltrattati rispettano. Pur facendo del bene vengono puniti come delinquenti, ma godono della punizione quasi avessero in regalo la vita. Combattuti dagli ebrei come gente estranea, vengono cacciati anche dai greci; eppure chi li odia non sa indicare la causa di tanta inimicizia”.

Tutto lo sviluppo di questa stupenda pagina nasce dalla dichiarazione iniziale: Cristiani non  si distinguono né per patria, né per lingua, né per comportamento dagli altri uomini”. Resa ancora più chiara da ciò che segue introdotto da un infatti esplicativo: “infatti non abitano in cittadelle private da nessuna parte, non utilizzano alcuna lingua alternativa, non sfoggiano alcuno speciale genere di vita”.

“A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del/dal corpo ; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del/dal mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo ma la loro religione [alla lettera: Venerazione a Dio] è invisibile

Questo amore, per cui la domanda sarebbe da intendersi più che che è questo tenero amore che essi hanno gli uni per gli altri”, come “che cos’è che spinge i cristiani ad amarsi tra loro come fossero consanguinei, teneramente uniti e legati da un profondo affetto?”.

L’autore risponde al cap. 10, (3)4-8: “Come non amerai colui che ti ha tanto amato? Ad amarLo (Dio) diventerai imitatore della sua bontà e non ti meraviglierai se un uomo può diventare imitatore di Dio: lo può volendolo lui (l’uomo). Non si è felici nell’opprimere il prossimo, nel voler ottenere più dei deboli, arricchirsi e tiranneggiare gli inferiori in questo nessuno può imitare Dio, sono cose lontane dalla Sua grandezza! Ma chi prende su di sé il peso del prossimo e in ciò che è superiore  cerca di beneficare l’inferiore; chi, dando a chi è in necessità ciò che ha ricevuto da Dio, è come un Dio per i beneficati, egli è imitatore di Dio. Allora stando sulla terra contemplerai perché Dio regna nei cieli, allora comincerai a parlare dei Misteri di Dio,…”.

Nello scritto contemporaneo dal titolo “il Pastore di Erma” (52,1-3):

Mi mostrò molti alberi senza foglie che mi sembravano quasi secchi. Erano tutti uguali. Mi dice: “vedi questi alberi?” – “Li vedo tutti uguali e secchi”. Mi risponde “Gli alberi che vedi sono gli abitanti di questo mondo” - Perché sono come secchi e uguali?” – “Perché in questo mondo non si vedono né i giusti né i peccatori, ma solo uguali. Questo mondo è un inverno per i giusti e non si vedono perché abitano con i peccatori. Come nell’inverno gli alberi perdono le foglie e sono uguali e non si vedono quali sono secchi e quali vegeti, così in questo mondo non si vedono né i giusti né i peccatori, ma tutti sono uguali”.

  Paolo Zannini durante una pausa del Convegno organizzato nel mese di ottobre 2003

 

II INCONTRO:  la solidarietà e la carità

Spiritualismo devoto e mancanza di solidarietà, caratteristica di un atteggiamento anticristiano.

Contro questa duplice piaga si schiera S. Ignazio di Antiochia, uno dei primissimi padri della chiesa morto martire. Nella sua lettera alla Chiesa di Smirne, dopo aver dedicato tre capitoli (2-5) a combattere i doceti, afferma in modo categorico: “Coloro poi che hanno opinioni diverse a riguardo della grazia di Gesù Cristo che è venuta a noi, osservate come sono contrari al pensiero di Dio: non si curano della carità, né della vedova, né dell’orfano, né del tribolato, né di colui che è prigioniero o che è stato liberato, né di colui che ha fame o sete” .

S. Basilio (padre cappadoce del IV sec.) si è spesso espresso contro uno spiritualismo devoto privo di solidarietà. “Non si deve dire : “Ma io prego” per giustificare la propria pigrizia, il proprio orrore della fatica. Si deve piuttosto approfittare del lavoro… Non solo. Oltre ad essere una necessaria disciplina del corpo, il lavoro è un’esigenza dell’amore verso il prossimo: grazie alla mediazione del nostro servizio, Dio dona ai fratelli indigenti i mezzi della loro sopravvivenza”.

E ancora “Se qualcuno sostiene di poter bastare a se stesso, di essere capace di arrivare alla perfezione senza che alcuno lo aiuti, di riuscire da solo ad approfondire la scrittura, costui fa esattamente come chi vuole esercitare il mestiere del falegname senza toccare il legno. (…). Amando gli uomini fino all’estremo il Signore non s’è limitato a insegnarci solo a parole: per dare un esempio preciso ed efficace dell’umiltà nella perfezione dell’amore, s’è messo un grembiule ai fianchi ed ha lavato i piedi ai discepoli. Tu, che vivi tutto solo con te stesso, a chi laverai i piedi? Dopo di chi ti metterai come ultimo? A chi offrirai il tuo servizio fraterno? (…) “Quelli che perseguono lo stesso fine se vivono insieme troveranno in questa convivenza molti vantaggi. …nella vita solitaria: quel che abbiamo non ci serve e quello che ci manca non possiamo procurarcelo. Sì Dio ha voluto che noi siamo indispensabili gli uni agli altri per essere uniti gli uni con gli altri.  Del resto, il precetto di Cristo sull’amore non ci permette di occuparci soltanto di noi stessi: “l’amore non cerca il proprio interesse (1 Cor. 13,5)” Invece, la vita solitaria cerca appunto questo: il vantaggio del singolo. Un fine che è evidentemente l’opposto della legge dell’amore. Basta pensare a come Paolo ha osservato questa legge: egli ha cercato non il tornaconto personale ma quello di molti altri, cioè la loro salvezza (cfr 1 Cor. 10,33”.

Appare lontana chilometri anni luce questa concezione della perfezione cristiana da quella che tanto spesso è stata inculcata:.

S. Basilio direbbe che ciò non ci consegna a Dio, nonostante la pietà, la devozione e le preghiere, ma al nostro egoismo, e aggiunge: il Signore non vuole che il segno di riconoscimento dei suoi discepoli consista nei miracoli, ma afferma: “Riconoscerà la gente che siete miei seguaci dal vostro amore vicendevole”

Questo malinteso concetto di onorare Dio solo in modo cultuale fu spesso rimproverato dai Padri greci, in particolare S. Giovanni Crisostomo che espone con la massima chiarezza l’assurdità di onorare Dio solo con atti di culto in una celebre omelia sul Vangelo di Matteo:

“Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre il freddo e la nudità. (…) Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l’onore più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi. Anche Pietro credeva di onorarlo impedendo a lui di lavargli i piedi. Questo non era onore, ma vera scortesia. Così anche tu rendigli quell’onore che egli ha comandato, fa che i poveri beneficino delle tue ricchezze. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro. Con questo non intendo certo proibirvi di fare doni alla chiesa. No. Ma vi scongiuro di elargire, con questi e prima di questi, l’elemosina. Dio infatti accetta i doni alla sua casa terrena, ma gradisce molto di più il soccorso dato ai poveri. Nel primo caso ne ricava vantaggio solo chi offre, nel secondo invece anche chi riceve. Là il dono potrebbe essere occasione di ostentazione; qui invece è elemosina e amore. Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d’oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l’affamato, e solo in seguito orna l’altare con quello che rimane. Gli offrirai un calice d’oro e non gli darai un bicchiere d’acqua? Che bisogno c’è di adornare con veli d’oro il suo altare, se poi, non gli offri il vestito necessario? Che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d’oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe o piuttosto non si infurierebbe contro di te? E se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce”.

Il rischio però di pagine anche forti, come quella che ho appena letto, è che ci diano l’impressione che i Padri greci ponessero l’accento più su un versante dell’assistenzialismo (elemosina) che della solidarietà (condivisione). Non ci potremmo fare idea più sbagliata; prendo a campione  l’Omelia sulla parola del vangelo “Demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi” (Lc 12,18) di S. Basilio Magno, la più esplicita sul tema: Informati uomo su chi è colui che ti ha dato ciò che possiedi; rammenta chi sei, che cosa è ciò che tu amministri, da chi lo hai ricevuto perché sei stato scelto tu al posto di altri. Sei stato costituito semplice servitore di Dio, amministratore di coloro che sono servi di Dio allo stesso modo di te. Non credere che tutto quanto sia stato preparato unicamente per il tuo stomaco. Devi pensare che ciò che tieni tra le mani è cosa altrui… e che di tutto ti verrà chiesto conto… “Che farò mai”. Logico sarebbe rispondere “sazierò le persone affamate, aprirò le porte dei miei magazzini e inviterò tutti i bisognosi”. Pronuncerò questa magnifica frase: “voi tutti, che necessitate di pane, venite a me”…Ma tu non facevi parte di questa categoria di uomini (…). Ma guardatevi: non è ridicolo tutto ciò? Che decisioni si appresterà mai a prendere, lui, che già ha un piede nella fossa! “Demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi” (Lc12,18). E io gli direi: “ Fai molto bene!” Perché questi magazzini di iniquità sono degni di essere demoliti. Abbatti con le tue stesse mani ciò che tu stesso hai edificato contro giustizia. Distruggi questi magazzini, giacché mai sono serviti a soccorrere alcuno. Demolisci questa casa, culla dell’avarizia… Tu insisti: “ Ma chi danneggio col tenere per me ciò che è mio?”. Vediamo meglio: che cosa è questo che tu dici essere tuo? Lo hai forse preso da qualche parte, perché tu venissi con esso alla vita? Sarebbe come se ad un teatro uno, volendo occupare per primo un posto a sedere, si mettesse a gettare fuori quelli che vogliono entrare dentro, appropriandosi così di ciò che è lì apposta perché tutti ne possano disporre. Ed è appunto in questo modo che si diviene ricchi: in virtù del solo fatto di essersi impadroniti per primi di ciò che è di tutti, ecco che allora se ne viene ad acquistare anche la proprietà, a titolo di primi occupanti. Se ciascuno prendesse per sé solo ciò che basta per le sue necessità, lasciando ciò che resta a disposizione di quanti ne hanno bisogno, forse nessuno sarebbe ricco, ma neppure vi sarebbe qualcuno povero. Non sei forse uscito nudo dal grembo di tua madre? E non dovrai forse tornare, sempre da nudo, nel seno della terra? Allora da dove proviene ciò che possiedi? Perché se rispondi che viene dal caso, sei empio, dal momento che non riconosci il Creatore e non lo ringrazi per quanto hai ricevuto. Ma se confessi che tutto viene da Dio, dicci allora per quale ragione lo hai ricevuto. Forse Dio è ingiusto, per il fatto che i mezzi necessari alla vita si trovano ripartiti in maniera ineguale ? Per il fatto che tu sei ricco e l’altro povero? Non sarà invece piuttosto perché possiate venire entrambi coronati, tu per aver saputo dare e lui per aver saputo essere paziente? Ma allora com’è possibile che tu creda di non recare offesa ad alcuno, quando rinchiudi tutto quel che possiedi nelle viscere insaziabili della tua avarizia, e sono tanti e tanti coloro che tu defraudi? Avido è colui che non si contenta del necessario, e ladro è colui che toglie agli altri quanto è loro. E tu non sei forse avido o ladro, nel momento in cui ti appropri di ciò che ti fu dato soltanto perché tu lo amministrassi? Se diamo il nome di ladro a chi spoglia dei propri abiti uno che è vestito, daremo forse altro nome a chi non veste un ignudo, pur potendolo fare? Il pane che tieni per te è quello dell’affamato; i vestiti che conservi nelle tue casse sono quelli dell’ignudo; la calzatura che imputridisce nella tua casa è di colui che va in giro scalzo. In sostanza: tu stai recando offesa a tutti coloro che potresti soccorre”.

Omelie contro le ricchezze:

S. Basilio:  Ma tu possiedi molte ricchezze: da dove ti vengono, allora? Presto detto: dal fatto che tu hai preferito goderne da solo, anziché soccorrere, servendoti di esse, i molti. Questo è chiarissimo. Pertanto, nella misura in cui tu abbondi di ricchezze, in questa stessa misura tu sei manchevole di carità. Se davvero amassi il tuo prossimo, da tempo avresti pensato di disfarti di ciò che possiedi. La verità, tuttavia, è che i ricchi, nella grande maggioranza dei casi, non si limitano a ricercare il possesso del denaro semplicemente per l’acquisto di cibo e del vestiario; e questo perché il diavolo si dà molto da fare nel suggerire loro infiniti pretesti per spendere: così che si va ricercando ciò che è inutile scambiandolo per ciò che è necessario, e niente mai basta a soddisfare i bisogni delle loro fantasie…

Quando possiedi una bella somma, già vai desiderandone un’altra uguale. Appena l’hai ottenuta, ecco che subito vai bramando di raddoppiarla. E così via: ogni volta, ciò che aggiungi non sazia il tuo desiderio di possesso, ma semplicemente accende di nuovo la tua avidità”.

Con la scusa di soddisfare i propri bisogni, persone singole e società intere accumulano ricchezza impedendo ad altri di soddisfare bisogni primari; però si considerano ugualmente persone pie: So di molti, che digiunano, che recitano preghiere, che gemono e sospirano, che praticano ogni forma di pietà che non supponga spesa, ma che non sganciano un soldo per i bisognosi. A che servirà poi tutta questa pietà? Non per questo li si ammetterà nel regno dei cieli!… ed essi, se mai decidessero di disfarsene (= delle ricchezze), dovranno, in questo caso, rallegrarsene, non diversamente da chi restituisce beni altrui, e non esserne irritati, come invece farebbe colui che viene privato di un bene proprio” (S. Basilio, ibidem).

La solidarietà non chiede solo che si cambino le strutture inique e se ne immettano altre buone che automaticamente producano giustizia, ma che ci si converta alla giustizia. Per questo è importante non solo ciò che si fa per gli altri ma come lo si fa.

Giovanni Crisostomo: “Non basta aiutare i poveri. Bisogna aiutarli con generosità e senza rammarico. E non basta aiutarli senza rammarico. Bisogna aiutarli con gioia e letizia. Quando si aiutano i poveri devono esserci queste due condizioni: generosità e contentezza. (…) Se date con atteggiamento burbero, non siete misericordiosi ma duri e disumani. Se la vostra faccia palesa un sentimento di contrarietà, non potete sollevare il fratello che è in mezzo alle contrarietà ci vive”.

Dignità del povero che non è l’oggetto della nostra elemosina, ma il soggetto di diritti lesi.

Crisostomo: “È follia, è demenza riempire gli armadi di vestiti e guardare con indifferenza un essere umano, un essere fatto a immagine e somiglianza di Dio, che è nudo, trema dal freddo, è quasi incapace di reggersi in piedi.

Voi dite: “ma quello lì finge di tremare e di non avere forza!”. E con ciò? Se quel disgraziato recita una commedia, lo fa perché dibattuto fra la propria miseria e la vostra crudeltà. Sì, voi siete crudeli e disumani: senza quelle simulazioni non aprireste il cuore alla misericordia. Se la necessità non lo costringesse, perché si comporterebbe in una maniera così avvilente per avere un tozzo di pane,?

La finzione di un mendicante testimonia la vostra disumanità. Le sue preghiere, le sue suppliche, i suoi lamenti, i suoi pianti, il suo vagare tutta la giornata per la città non gli procuravano il minimo per campare. È forse questa la ragione per cui ha pensato di recitare quella parte. Ma la vergogna, la colpa della sua finzione ricadono meno su di lui che su di voi. Lui infatti ha diritto alla pietà, trovandosi in tale abisso di miseria. Voi invece meritate mille castighi avendolo costretto a tale abiezione”.

 “Le costituzioni apostoliche”  e   ruolo del Vescovo.

“Che si verifichi dunque se questi sia irreprensibile negli affari secolari; poiché è scritto “esaminate con cura colui che sarà scelto per il sacerdozio”. Che non sia irascibile, perché la Sapienza dice: “la collera perde anche i saggi”. Che egli sia compassionevole, generoso, amabile, perché il Signore dice: “Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri”.  Che egli sia pronto a donare, buono verso le vedove gli stranieri, preveniente, servizievole, premuroso; che non abbia ad arrossire, che sappia chi merita di essere maggiormente preso in considerazione”.

Criteri per discernere chi elevare all’episcopato. E sia il vescovo: non avido di guadagno … disposto a subire danno piuttosto che a causarne, non desideroso di avere di più, non rapace, non spoliatore, non amico dei ricchi, né sdegnoso dei poveri…, non invischiato in affari del mondo, non compromesso nel dare garanzie o sostegno in cause finanziarie…”.

I doni da accettare e quelli da rifiutare: “Che il vescovo sappia da chi deve accettare offerte e da chi le deve rifiutare. Deve guardarsi in caso di donazione, dai trafficanti. Non c’è un trafficante, in pratica, che sia immune da peccato. […]. Devi evitare gli sfruttatori della prostituzione… e i ricattatori, gli ingordi di beni altrui… Ma anche quelli che fanno tribolare la vedova, opprimono l’orfano, riempiono d’innocenti le prigioni, o vergognosamente abusano dei loro domestici con percosse – perfino –e privazione di cibo e duro lavoro da schiavi, o che sfruttano intere città, tu o vescovo, evitali assieme alle loro nauseanti donazioni.”.

Il vescovo era dunque il primo garante della solidarietà con le persone che vivevano in condizioni di esistenza svantaggiate.

Clemente, un padre del II secolo vissuto in Alessandria d’Egitto: “Parecchie delle nostre donne son felici di passare la vita in compagnia di uomini effeminati. Altre più sofisticate, si dilettano ad allevare animali come uccelli o pavoni. Ci giocano insieme, trovandoci piacere. Ma trascurano la vedova, che ovviamente vale assai più d’un cagnolino di razza.  E disprezzano il vecchietto, che mi sembra più degno d’amore d’una bestia. E non ospitano l’orfano, mentre allevano pappagalli. O addirittura abbandonano per la strada i loro neonati, mentre accolgono in casa gli uccelli. Né danno da mangiare a chi ha fame, sebbene sia più bello delle scimmie e sappia dire qualcosa di più interessante degli usignoli”.

Il vescovo affidava l’orfano ad una famiglia cristiana: “Se un cristiano resta orfano, sia esso maschio o femmina, sarà bene che uno dei fratelli privi di figli prenda con sé il bimbo come figlio e, se ha figli, prenda la bambina che, quando sarà giunto il momento, darà in sposa ad uno di essi.”.

Tutta la comunità si faceva carico del sostentamento e della crescita di questi ragazzi come anche del loro futuro inserimento nella società. Si legge infatti nelle “costituzioni apostoliche”:

“Ma se non ci sono delle persone disposte [ad adottare gli orfani] e uno, che preferisca piacere agli uomini, si vergogna poiché è ricco di prendersi cura dei derelitti si darà pensiero dell’orfano Il Padre degli orfani e Difensore delle vedove (Dio = sal 67,6) e a quello toccherà uno che gli sperpererà tutto l’accumulo dell’avarizia e si avvererà a suo riguardo il detto “quello che non hanno mangiato i santi, verrà mangiato dagli Assiri” come anche dice Isaia “La terra vostra al vostro cospetto la divoreranno gli stranieri”.

La comunità cristiana non poteva accettare che coloro che avevano ricevuto il battesimo, non cambiassero mentalità anche nell’uso dei beni.

Solidarietà nei confronti dei martiri.

Le Costituzioni Apostoliche prescrivono: “Se per il nome di Cristo, la fede e l’amore di Dio, un cristiano è condannato dagli empi ai giochi (del Circo), alle belve o (ai lavori forzati) nelle miniere, non abbandonatelo, ma del frutto del vostro lavoro e del vostro sudore, fategli avere di che nutrirsi e di che pagare i soldati, perché trovi sollievo e sollecitudine e, per quanto dipende da voi, il vostro amato fratello non sia schiacciato. Perché se qualcuno è condannato a causa del Nome del Signore Dio, è un santo martire, un fratello del Signore (etc….). Perciò fedeli tutti,  attraverso il vostro vescovo soccorrete i santi con i vostri beni e col frutto del vostro lavoro; colui che non ha niente, che digiuni, metta da parte il nutrimento della giornata e la riservi per i santi; se qualcuno vive nell’abbondanza, che aiuti questi ultimi con doni più importanti, proporzionalmente alla sua fortuna; ma se può, vendendo tutti i suoi beni, liberi i santi dalla prigione, sarà beato e amico di Cristo. (…) E se essi (i martiri) sono tali che il Cristo stesso rende loro testimonianza davanti al Padre voi non dovete avere vergogna di andarli a trovare in prigione; perché se lo farete ciò vi sarà contato come martirio; in effetti, del martirio, essi ne fanno l’esperienza, ma per voi è nel vostro ardore nell’associarvi al loro combattimento”. (Cost. Ap. IV,1-5).

La Chiesa di Roma teneva aggiornato il registro dei proscritti e inviava loro fratelli per confortarli e attenuare in qualche modo il rigore della loro condizione. Sappiamo che il vescovo di Roma, il papa Vittore, aveva presso di sé la matricola dei fedeli che lavoravano nelle miniere della Sardegna e che nel 190 riuscì ad ottenerne la liberazione. I fratelli condannati alle prigioni e alle miniere rappresentavano un carico supplementare per le comunità che penavano per mettere da parte il denaro necessario ad aiutarli ed eventualmente a liberarli. Così perciò le “costituzioni apostoliche” esortavano le comunità: “Dì al popolo che ti è stato affidato - si rivolge al Vescovo - ciò che ha detto Salomone il saggio: “Onora il Signore con il tuo giusto lavoro e offri a lui le primizie dei tuoi frutti di giustizia , perché i tuoi granai si riempiranno di grano e i tuoi tini traboccheranno di vino”. Nutri dunque e vesti gli indigenti grazie al giusto lavoro dei fedeli, e, come abbiamo detto più sopra, il denaro raccolto da essi, distribuiscilo e utilizzalo per il riscatto dei santi, per liberare gli schiavi, i deportati, i prigionieri, le vittime delle calunnie e quelli che sono condannati dai tiranni a causa del nome di Cristo e inviati al circo e alla morte. (Cost. Ap. IV,9).

Un’altra espressione di solidarietà, che riporto perché colpiva molto i pagani, fu quella di tante comunità cristiane che non si limitavano a seppellire i propri morti, ma compivano questo dovere nei posti dove si trovavano dei morti senza sepoltura, vittime di calamità pubbliche o di naufragi. Un altro scritto, il “Testamento degli Apostoli prescrive al diacono che vive in una città della costa di percorrere frequentemente il litorale per raccogliere colui che potrebbe essere stato vittima di un naufragio, lo vesta e lo seppellisca” (I,34:II,34)

III INCONTRO: la risurrezione

Dagli Atti degli Apostoli (17,32) per vedere come finché Paolo propose ad Atene un Dio “nuovo” sostitutivo del loro Dio “ignoto” non ebbe problemi – perlomeno lo ascoltavano -, ma: quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni se ne beffavano; e altri dicevano: «Su questo ti ascolteremo un’altra volta»”.

Giustino nel Dialogo con Trifone affermerà: “Se dunque incontrate dei cristiani che tali sono chiamati ma non riconoscono queste dottrine e per di più osano bestemmiare il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e affermano che non c’è resurrezione dei morti, ma che al momento della morte le loro anime vengono assunte in cielo, non dovete considerarli cristiani”.

Giustino, contro ogni integralismo, afferma che “Cristo è il primogenito di Dio, la Parola, di cui ogni uomo è partecipe, e tutti quelli che vivono in conformità alla Parola sono cristiani, come tra i Greci, Socrate ed Eraclito e gli uomini come loro” .

Pensate che proprio su questa sua teoria detta dei “semi del Verbo, si è fondato il Conc. Vat. II per sostenere il dialogo con le religioni e l’ateismo.

Taziano giunge perfino a negare quell’affermazione filosofica, data allora da tutti per scontata, affermando che l’anima non è affatto immortale:

O greci, l’anima di per sé non è immortale, ma mortale; però è possibile che essa non muoia. Muore, infatti, e si dissolve con il corpo se non ha conosciuto la verità. Più tardi, alla fine del mondo, risorgerà insieme al corpo per ricevere, nel castigo, la morte nell’immortalità; se invece ha acquistato la conoscenza di Dio, non muore una seconda volta, anche se si è dissolta per un certo periodo. Di per sé, infatti, è tenebra e nulla di luminoso vi è in essa e proprio questo significano le parole «la tenebra non riceve la luce» (Gv 1,5). Non fu l’anima a salvare lo spirito, ma da questo fu salvata; e la luce ricevette la tenebra proprio perché il Logos è la luce di Dio, mentre la tenebra è l’anima ignorante. Perciò, trovandosi da sola di fronte alla materia, si piega verso il basso e muore insieme al corpo. Se, invece, gode dell’accoppiamento con lo spirito divino non è più senza aiuto, ma si solleva verso quelle regioni dove lo spirito la conduce. Infatti la dimora di questo è in alto, mentre nel basso l’origine di quella”.

Giustino nel suo Dialogo con Trifone:

“5. 1. — Di queste cose, dunque, quei filosofi non sanno nulla, perché non sono in grado di dire che cosa sia l’anima. — Pare di no. — E neppure si deve dire che essa sia immortale, perché se fosse immortale sarebbe ovviamente anche non-creata. — Ma appunto non-creata e immortale è ritenuta da alcuni che sono chiamati platonici. — Tu credi che anche il mondo sia non-creato? — Vi sono di quelli che lo affermano, ma io non sono d’accordo con loro. 2. — E fai bene. Che fondamento ha, infatti, ritenere che un corpo così solido, resistente, composito, mutevole, che perisce e risorge ogni giorno, non abbia avuto un qualche inizio? Ma se il mondo è  creato, anche le anime debbono essere create e, verosimilmente, non esistere più ad un certo punto. Infatti sono venute all’esistenza a motivo degli uomini e degli altri esseri viventi, sempre che tu ammetta che esse nascono separatamente e non assieme ai rispettivi corpi. — Direi che è proprio così. — Dunque le anime non sono immortali. — No, dato che anche il mondo risulta essere creato. 3. […] 4. […] Tutto ciò che esiste o esisterà mai al di fuori di Dio è di natura corruttibile e può scomparire e non esistere più, perché solo Dio è non-creato e incorruttibile, e proprio per questo è Dio, mentre tutto il resto, che viene dopo di lui, è creato e corruttibile” .

Affermare una immortalità dell’anima come proprietà propria dell’anima, come diritto insito nella sua natura, è rinnegare Dio stesso come fonte della vita. L’anima ha la vita, non è la vita solo Dio è la vita! Continua Giustino:

“5.  6 […] — Tutto questo, dissi, è dunque sfuggito a Platone e a Pitagora, uomini saggi, divenuti per noi baluardo e sostegno della filosofia?  6.  1. — Non mi interessano né Platone né Pitagora né semplicemente alcuno che difenda teorie di questo tipo. La verità è questa e puoi apprenderla da quanto segue. L’anima, dunque, o è vita ovvero possiede la vita. Se è vita farà vivere qualcos’altro, non se stessa, così come il movimento farà muovere qualcos’altro piuttosto che se stesso. Ma che l’anima viva, nessuno lo vorrà contestare. Se dunque vive, vive senza essere essa stessa la vita, bensì avendo la vita per partecipazione. Ora, ciò che partecipa di qualche cosa è diverso da ciò di cui partecipa. L’anima partecipa della vita perché Dio vuole che essa abbia la vita. 2. Così non ne parteciperà più quand’egli non volesse più che viva. Il vivere infatti non è una sua proprietà così come invece lo è di Dio. Ma come non è proprio dell’uomo vivere per sempre e come il suo corpo non rimane sempre unito all’anima ma, quando viene il momento di sciogliere questa connessione, l’anima abbandona il corpo e l’uomo non è più, così, quando l’anima non deve più esistere, si separa da lei lo spirito vivificante e l’anima non è più ma torna anch’essa là di dove è stata presa”.

Tertulliano: “La nostra certezza è questa: Cristo ha amato l’uomo, l’ha formato nelle immondizie dell’utero [notate il susseguirsi voluto delle espressioni di disprezzo con cui gli gnostici descrivevano la corporeità], venuto al mondo per canali vergognosi, nutrito di carezze ingannevoli. Per lui è disceso dal cielo, per lui ha predicato, per lui si è umiliato in ogni modo sino alla morte, e alla morte di croce. Non può non aver amato chi ha redento a così caro prezzo” .

Dunque quel modo di concepire la nostra umanità è falso, per questo Ireno per sostenere la risurrezione della carne, ci spiega prima come concepire la nostra umanità:

“Dio sarà glorificato nella sua creatura conformata e modellata sul proprio Figlio, poiché per le mani del Padre, cioè per mezzo del Figlio e dello Spirito, l’uomo, non una sua parte, diventa simile a Dio. L’anima e lo Spirito possono essere una parte dell’uomo, non tutto l’uomo; l’uomo perfetto è composizione e unione dell’anima che riceve lo Spirito del Padre ed è unita alla carne: questa è la creatura a immagine di Dio. Se uno toglie la sostanza della carne, cioè della creatura e intende solo lo Spirito, ciò che resta non è più un uomo spirituale, ma lo spirito d’un uomo e lo Spirito di Dio. Ma quando questo Spirito si compone con l’anima e s’unisce alla creatura, per l’effusione dello Spirito l’uomo diventa spirituale e perfetto e questo è quello fatto a immagine e somiglianza di Dio. Ma se nell’anima manca lo Spirito, questo tale è davvero psichico [= animato] e rimasto carnale è imperfetto: in quanto creatura è immagine, ma non riceve la somiglianza mediante lo Spirito. Se questo è imperfetto, ancor più togliendo l’immagine e sprezzando la creatura non si può più riconoscere l’uomo, ma una parte dell’uomo, come abbiamo detto, o qualche cosa di diverso dall’uomo. La formazione della carne da sola non è un uomo perfetto, ma il corpo d’un uomo, una parte dell’uomo. l’anima da sola costituisce l’uomo, ma l’anima d’un uomo, una parte dell’uomo. lo spirito è l’uomo; è appunto detto spirito, non uomo. Ma la composizione e l’unione di questi elementi costituisce l’uomo perfetto. Per questo l’Apostolo spiegando il suo pensiero presentò l’uomo perfetto e spirituale della salvezza nella prima lettera ai Tessalonicesi con queste parole: « II Dio della pace santifichi voi perfetti e il vostro spirito, l’anima e il corpo siano serbati intatti senza biasimo per la venuta del Signore Gesù Cristo» (1 Ts. 5, 23). Che motivo aveva di augurare la perfetta conservazione per la venuta del Signore di questi tre: anima e corpo e spirito, se non avesse saputo che l’unica e medesima salvezza riguardava la composizione e unione dei tre? Perfetti chiama appunto quelli che presentano al Signore i tre elementi senza biasimo. Perfetti sono quindi quelli che avranno costantemente in se lo spirito e custodiranno senza biasimo le anime e i corpi conservando la fede di Dio, e osservando la giustizia verso il prossimo. V, 6,2 - Perciò dice che la creatura è tempio di Dio: « Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Chi profana il tempio di Dio sarà sterminato da Dio: il tempio di Dio, che siete voi è santo» (1 Cor. 3, 16s). Evidentemente chiama tempio il corpo nel quale abita lo spirito. Anche il Signore dice di se stesso: « Distruggete questo tempio e in tre giorni lo rimetterò in piedi » (Gv. 2, 19, 21). Ma non solo sa che i nostri corpi sono templi, ma templi di Cristo, dicendo ai Corinti: « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Volete che prenda le membra di Cristo e ne faccia membra di prostituta? » (1 Cor. 6, 11). Non parla d’un uomo spirituale, che non può abbracciare una meretrice, ma il nostro corpo, cioè la carne che persevera nella santità e purezza, chiama membro di Cristo; questa, quando abbraccia una prostituta, diventa membro di prostituta. Per questo ha detto: « Chi profana il tempio di Dio sarà sterminato da Dio » (1 Cor. .3, 17). Non è infatti somma offesa dire che il tempio di Dio, in cui abita lo spirito del Padre e le membra di Cristo non ottengano la salvezza, ma siano gettate a perdizione? Che i nostri corpi resusciteranno non per propria natura, ma per virtù di Dio, lo dice ai Corinti: « Il corpo non è per la fornicazione, ma per il Signore e il Signore per il corpo. Dio ha resuscitato il Signore (Gesù) e resusciterà noi pure mediante la sua potenza» (1 Cor. 6. 13s)”.

Ireneo: Vi sono alcuni che negano la salvezza della carne e spregiano la sua risurrezione dicendo che essa non è capace d’incorruttibilità (5,2,2). Come Cristo risorse nella sostanza della carne e mostrò ai discepoli i segni dei chiodi e l’apertura del costato — questi sono i segni della sua carne risorta dai morti — «così risusciterà noi mediante la sua potenza». […] Morire è perdere la capacità vitale e rimanere senza spirito, senz’anima e senza memoria e decomporsi negli elementi dai quali ebbe origine la sostanza. Questo non avviene nell’anima […] ma nella carne; è della carne che Paolo dice: Se lo Spirito risuscitò Cristo dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali” (Rm 8,11).

Il dono dell’immortalità alla carne è perciò per Ireneo il miracolo più grande: che cosa è più glorioso della carne che risorge e riceve l’incorruzione? (5,7,1-2). I corpi sottoposti alla morte... risorgono mediante lo Spirito divenendo corpi spirituali”,  e tuttavia fin dal battesimo l’uomo riceve da Cristo una parte del suo Spirito in caparra della perfetta incorruzione (5,7,2- 8,1; cf. I Cor 15,44 e Ef 1,13-14).

La risurrezione avverrà dunque – dice sempre Ireneo - non per la distruzione della carne, ma per la comunione dello Spirito; gli uomini possono cominciare a viverla su questa terra sottomettendosi allo Spirito e comportandosi in tutto in modo spirituale (5,8,1-2); coloro che con la fede pongono lo Spirito di Dio nel loro cuore, vivono per Iddio, perché hanno lo Spirito del Padre che purifica l’uomo e lo eleva alla vita divina (5,9,2). E se la carne senza lo Spirito di Dio è morta, è sicuro che dove c’è lo Spirito del Padre c’è un uomo vivente (5,9,3).

La vita umana acquista un significato nuovo per chi obbedisce al progetto che Dio ha su ognuno dei suoi figli: ricevendo lo Spirito, camminiamo in una nuova vita, obbedendo a Dio (ivi). L’infusione dello Spirito annunzia che Dio dà vita togliendo la morte del peccato (5,10,2) e innestando nelle azioni dell’uomo sentimenti di vera umanità: amore, gioia, pace, pazienza, bontà, benignità, fedeltà, mitezza, temperanza, castità (5,11,1; Gal 5,22-23). È la manifestazione dello Spirito di Dio in tutta la sua pienezza. Nel giorno della creazione Dio aveva donato all’uomo la vita con un soffio, mentre negli ultimi tempi lo diffuse sul genere umano mediante l’adozione a figli: ora l’uomo, volgendosi al bene e ricevendo lo Spirito vivificante, ritroverà la vita (5,12,2). Il dono totale dello Spirito sarà la risurrezione per la visione di Dio: “lo Spirito dispone l’uomo a vedere il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre comunica l’incorruzione che scaturisce necessariamente dal vedere Dio nella vita senza fine” (4,20,5). “Gli uomini dunque vedranno Dio e vivranno giungendo fino a Dio, resi immortali dalla sua contemplazione” (4,20,6).

Atenagora:

“1. Né (riguarda il fine dell’uomo) la felicità dell’anima separata dal corpo; infatti non consideriamo la vita o il fine una delle due parti di cui l’uomo è costituito, ma di colui che è composto di tutte e due. Tale è ogni uomo che ha avuto in sorte questa vita e bisogna che ci sia un fine proprio di questa vita. 2. Se dunque il fine è del composto e non è possibile – per le cause già menzionate più volte - che si verifichi mentre le stesse parti sono ancora in questa vita né quando l’anima si trova separata - per il fatto che l’uomo non sussiste più così come è se il corpo è andato in dissoluzione o si è del tutto disperso, anche se l’anima continua a vivere di per sé - è del tutto necessario che il fine degli uomini si riveli in un’altra costituzione del composto e dello stesso essere vivente. 3. Se ciò è necessariamente conseguente, bisogna assolutamente che ci sia una risurrezione dei corpi morti o completamente dissolti e che si ricompongano gli stessi uomini. Il fine infatti, non è a caso, né la legge di natura è posta per gli uomini in senso astratto, ma per quegli stessi uomini che hanno vissuto nella vita precedente. È impossibile poi che si ricostituiscano gli stessi uomini se i medesimi corpi non sono restituiti alle medesime anime. E non è possibile che lo stesso corpo riceva la medesima anima in qualche altro modo, ma è possibile solo mediante la risurrezione. Avvenuta la risurrezione, segue il fine corrispondente alla natura dell’uomo”.

In vista di questo fine occorre allora che il corpo che risorge sia lo stesso. E ciò provocava la derisione da parte dei greci che pensavano grossolanamente ad una rianimazione di un cadavere.

“4.1. Costoro dicono che molti corpi di quelli che sono mor­ti nei naufragi o nei fiumi sono divenuti cibo per i pesci e molti (corpi) di coloro che sono periti in battaglia, o per qualche altra causa violenta o per altra disgrazia, rimanendo senza sepoltura, giacciono lì come pasto dei primi animali che capitano. 2. Se dunque i corpi sono distrutti in questo modo e le membra e le parti che li componevano sono fatti a pezzi da un’infinità di animali e, a causa del nutrimento, divengono un tutt’uno con i corpi di coloro che se ne nutrono, anzitutto sarà impossibile - essi dicono - la loro separazione. Ma, oltre que­sta, c’è una seconda difficoltà ancor più insuperabile. 3. I corpi umani che sono mangiati da quegli animali che (a loro volta) sono buoni come cibo per l’uomo, passano attra­verso il loro stomaco e divengono un tutt’uno con i corpi di co­loro che se ne nutrono; necessariamente tutte quelle parti del­l’uomo che furono cibo per gli animali che le mangiarono passano in altri corpi umani, poiché gli animali, che nel frattempo se ne sono nutriti, fanno passare il cibo con cui si sono alimen­tati in quegli uomini di cui essi divengono nutrimento. 4. Inoltre rappresentano nelle tragedie le tecnofagie che si sono osate per fame o per pazzia e i figli divorati dai genitori per l’insidia di nemici e la tavola dei medi e i tragici pasti di Tieste e a queste cose aggiungono alcune sciagure introdotte presso i greci e i barbari. Da tutto questo stabiliscono, secondo il loro ragionamento, che la risurrezione è impossibile poiché non potrebbero le stesse membra risorgere con corpi diversi gli uni dagli altri: pertanto, o non sarebbe possibile che sussistano i (corpi) dei primi - essendo passate in altri corpi le membra che li costituivano -, oppure, se queste (membra) fossero restituite ai primi, i corpi degli ultimi rimarrebbero mutili”.

Atenagora risponde: “I corpi che risorgeranno saranno costituiti di nuovo da parti che sono loro proprie, mentre nessuna delle sostanze nominate è una parte (del corpo), né presenta una natura o una funzione di parte; né rimane assolutamente nelle parti del corpo che si sono nutrite, né risorgerà insieme a quelle che risorgeranno, non avendo più nessuna funzione a favore della vita né il sangue, né il muco, né la bile, né il respiro. Né i corpi che si nutrono avranno più bisogno delle cose di cui avevano bisogno un tempo, poiché l’utilità delle cose da cui erano nutriti scomparirà insieme al bisogno e alla decomposizione degli alimenti nutritivi”.

Tertulliano: “Essere distrutto, infatti, comporta la totale non esistenza di ciò che l’oggetto è stato; essere trasformati, invece significa essere in modo diverso. E dunque in quanto comporta un diverso modo di essere, vi può essere una identità del soggetto”

Atenagora: “3.1. Se infatti, secondo la prima costituzione, egli creò i corpi degli uomini che non esistevano e i loro princìpi, una volta dissolti - in qualunque maniera in cui ciò avvenga - li risusciterà con uguale facilità: allo stesso modo anche questo gli è possibile. 2. […]. È  proprio di questa potenza (divina) dare una forma alla materia da essi ritenuta informe, ordinare in molte e svariate immagini quella sostanza amorfa e disadorna, comporre insie­me le parti degli elementi e il seme, che era uno solo e sempli­ce, dividerlo in più e articolare quello che era disarticolato e da­re la vita a ciò che era senza vita. Ed è proprio di questa stessa (potenza) ricomporre ciò che era stato dissolto, far risorgere ciò che giace e dare di nuovo la vita a ciò che è morto e trasforma­re ciò che è corruttibile in incorruttibile. 3. Sarà opera di lui stesso, della stessa potenza e sapienza distinguere da quel momento quello che è stato smembrato da una caterva di animali di ogni specie, quanti sono soliti piom­bare su questi corpi e con essi saziarsi; e riunirlo di nuovo nel­le proprie parti e pezzi di corpo, anche se uno dei corpi fosse finito in un animale o in molti, anche se da questi in altri, an­che se - dissoltosi insieme a quelli stessi - fosse tornato ai pri­mi princìpi secondo una naturale dissoluzione in essi. E questo soprattutto sembrò sconvolgere alcuni, anche fra coloro che ammiravano la sapienza e che, non so come, giudica­rono consistenti i dubbi che si erano diffusi nella maggioranza”

Ireneo:

“Confutiamo la loro metempsicosi col fatto che le anime non ricordano nulla del passato. Ora se fossero state date per esperimentare ogni azione, dovrebbero ricordarsi di quelle precedenti per com­pletare ciò che manca e non dover miseramente fa­ticare sempre fra le stesse esperienze. L’unione col corpo non dovrebbe cancellare com­pletamente la memoria dello stato precedente soprat­tutto se fossero venute apposta. Come adesso, ripo­sando il corpo nel sonno, ciò che l’anima vede in sé e opera in sogno, in gran parte ricorda pur comu­nicando col corpo; talvolta anzi molto tempo dopo di essersi svegliata narra ciò che in sogno vide; cosi dovrebbe ricordarsi di ciò che fece prima di venire in questo corpo. Infatti se ciò è visto in brevissimo tempo o concepito nell’immaginazione e solo nel sogno dopo essersi unita al corpo e dispersa per tutte le membra ancora ricorda, tanto più si dovrebbe ricordare di ciò in cui si trattenne per tanto tempo, per tutto il periodo della vita precedente”.

Platone stesso, che aveva teorizzato la trasmigrazione delle anime alla morte da un corpo ad un altro, non era stato capace però di spiegare come queste perdessero la memoria di quanto vissuto in precedenza se il corpo fosse stato solo un loro strumento inerte, perciò inventò la “bevanda della dimenticanza”. A questa risponde con ironia intellettuale Ireneo: “Ma questa non è una prova, è un’affermazione dogma­tica che alle anime che entrano in questa vita prima di entrare nel corpo il demone posto all’ingresso faccia bere (il calice della dimenticanza). E non si accorse di esser caduto in una difficoltà maggiore. Se il calice della dimenticanza bevuto può togliere il ricordo di tutto ciò che si è fatto, donde sai, o Platone, essendo ora la tua anima nel corpo, che prima del corpo il demone le fece bere il farmaco della dimenticanza? Se ricordi il demone, il calice e l’entrata, dovresti sapere anche il resto; se lo ignori, neppure il demone è vero, il presunto calice della dimenticanza”.

Argomenta Ireneo:  “Come mai allora tutto ciò che l’anima vede da sé nel sogno col pensiero, mentre il corpo riposa, essa lo ricorda e lo racconta ai vicini? Se il corpo fosse (causa del)la dimenticanza, l’anima stando nel corpo non avrebbe neppure ricordato ciò che conobbe un tempo con gli occhi o l’udito, ma appena si fosse levato l’occhio dalle cose, sarebbe scomparso anche il loro ricordo. Stando nella dimenticanza stessa ( = corpo), l’anima non potrebbe conoscere se non ciò che vede al mo­mento. E allora come avrebbe appreso le cose divine e come se ne ricorderebbe nel corpo quando, come dicono, il corpo è la stessa dimenticanza? […]. 4. II corpo non è da più dell’anima, dalla quale è animato, vivificato, sviluppato e articolato, ma l’anima domina e comanda al corpo. Essa poi tanto è impedita nella sua speditezza quanto il corpo pren­de parte al suo movimento: però non perde la sua conoscenza. Il corpo è come lo strumento mentre l’anima fa da artefice. Come dunque l’artefice esco­gita speditamente la sua opera, ma la realizza più lentamente con lo strumento a causa dell’inerzia dell’oggetto e la velocità della mente compie l’opera temperatamente in congiunzione con la lentezza dello strumento; cosi l’anima comunicando col corpo viene un po’ impedita nella sua speditezza nell’unio­ne alla lentezza del corpo, non perde però comple­tamente le sue capacità, ma comunicando al corpo in certo modo la vita, non cessa essa stessa di vivere. Cosi comunicando ad esso nel resto, non perde la loro conoscenza né il ricordo di ciò che ha visto. 5. Perciò se non ricorda nulla del passato, ma percepisce la conoscenza delle cose presenti, non fu mai in altri corpi (poiché) non compì mai ciò che non conosce né conosce ciò che non vide. Come ciascuno di noi riceve dall’arte di Dio un proprio corpo, cosi ha una sua propria anima poiché Dio non è cosi povero e indigente da non (poter) dare a ciascuno una propria anima come un proprio carattere. E perciò compiuto il numero già fissato, tutti gli iscritti alla vita risorgeranno col loro corpo, propria anima e proprio spirito coi quali piacquero a Dio. Invece i meritevoli di castigo se ne andranno ad esso, anch’essi con la loro anima e i loro corpi nei quali si allontanarono dalla divina bontà. E cesseranno tutti di generare e di nascere, di sposarsi e maritarsi, cosicché completata la molti­tudine predefinita da Dio si compie il piano totale del Padre” .

Ireneo torna al messaggio evangelico per mostrare come esso appunto mediante la resurrezione salvi la globalità della persona e con essa la singolarità e l’identita di ogni individuo: “II Signore insegnò molto precisamente non solo che le anime perseverano senza passare da un corpo all’altro, ma che conservano le qualità del corpo in cui furono poste e che si ricordano delle opere compiute qui e nelle quali mancarono; lo in­segnò nella storia detta del ricco e di Lazzaro che si riposava nel seno di Abramo. In essa dice che il ricco conosceva Lazzaro dopo la morte e che Abramo e ciascuno rimaneva nel suo piano e chiedeva a Lazzaro al quale non aveva fatto parte neppure delle briciole della sua mensa, di soccorrerlo; e (il Si­gnore riferisce) la risposta di Abramo che conosceva non solo le condizioni sue, ma anche quelle del ricco e comandava che ascoltassero Mosè e i profeti quelli che non volevano giungere in quel luogo di pena piuttosto che attendere l’annuncio di un risorto da morte.

Con ciò è definito chiaramente che le anime ri­mangono senza passare da un corpo all’altro e hanno caratteristiche personali in modo che sono ricono­sciute e si ricordano di quaggiù, che stanno accanto allo spirito profetico di Abramo e ciascuno riceve la meritata dimora anche prima del giudizio (uni­versale). 2. Ora se poi vengono a dire che le anime le quali hanno avuto l’inizio dell’esistenza da poco, non possono durare a lungo e che è necessario che siano o ingenerabili per immortalità o destinate al corpo se hanno avuto un principio di nascita, im­parino che Dio solo, Signore di tutti è senza principio e senza fine, davvero sempre uguale a se stesso. Tutte le cose invece create da lui in passato e al presente hanno un principio di esistenza e perciò sono infe­riori al loro Creatore perché non sono ingenerate; durano però per tutta la lunghezza del tempo se­condo la volontà di Dio creatore, il quale dà loro un principio di divenire e perciò sono inferiori al loro creatore, perché non sono ingenerate; durano però per tutta la lunghezza dei tempi secondo la volontà di Dio creatore il quale appunto dà loro il principio di divenire e poi di (continuare ad) essere. 3. […] Il Padre di tutti dona a quelli che si salvano durata anche per secoli e secoli. Quindi chi custodirà il dono della vita rendendone grazie al datore riceverà anche longevità per secoli di secoli. Chi invece la rifiuterà con ingratitudine verso il Creatore per averlo creato, non riconoscendo Colui che gliel’ha data, si priva da sé della durata per secoli di secoli. Per questo il Signore diceva a quelli che gli sono ingrati: « Se non siete fedeli nel poco chi vi affiderà il molto? » (Lc. 16, 10-12) fa­cendo capire che quanti sono ingrati nella piccola vita temporale a chi l’ha loro data, non meritano di ricevere da lui longevità nei secoli dei secoli.”.

Per concludere, abbiamo visto come questi Padri della Chiesa abbiano cercato di difendere il messaggio evangelico contro le contraffazioni degli eretici gnostici che lo falsificavano poggiandosi più sulla filosofia che sulla Parola di Dio. Perciò per restarle fedeli si sono visti costretti a rispondere loro facendo ricorso anch’essi a sottili ragionamenti. Tuttavia è importante saper notare che tale operazione fu realizzata per spiegare il messaggio non per piegarlo ai loro ragionamenti, come attesta Tertulliano: “5. Di conseguenza non sarà cri­stiano chi negherà la resurrezione, confessata dai cri­stiani, tanto più se per negarla farà ricorso a questi ar­gomenti, di cui i cristiani non si servono. 6. Togli dun­que agli eretici le idee che hanno in comune con i pa­gani, tanto da costringerli a fondare le loro indagini solo sulle Scritture, e non si reggeranno in piedi. Il senso comune, infatti, si raccomanda per la sua stessa semplicità, e per la convergenza dei pensieri e la consuetudine delle opinioni, ed è per questo stimato più degno di fede, perché definisce cose scoperte, evidenti e note a tutti; il pensiero divino, invece, risiede nell’in­tima essenza, non nella superficie delle cose, e il più delle volte è contrario alle apparenze”.